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Referendum
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Referendum: addio Camere gemelle, la riforma che ristruttura 'Palazzo'

Solo Montecitorio darà la fiducia, obiettivo stabilità

Redazione ANSA

Il Parlamento, si sa, serve a discutere e approvare le leggi, dare la fiducia al governo, controllare il suo operato. L'Italia, come altri Paesi, lo ha diviso in due: da una parte la Camera, dall'altra il Senato, due ‘gemelli’, magari non monozigoti, ma con gli stessi identici poteri. L'unica differenza reale tra i due rami del Parlamento è la grandezza delle assemblee (e dei palazzi che le ospitano): a Montecitorio alloggiano 630 deputati, a Palazzo Madama 315 senatori, più un pugno di senatori a vita.

La scelta fu compiuta nel dopoguerra, e ci fu da discutere. C'era chi (il Pci) avrebbe voluto una Camera sola, e chi (la Dc) pensava a un Senato composto da sindaci. Alla fine ci si accordò sul sistema ancora oggi in vigore. L'Italia veniva da vent'anni di dittatura, prevalse l'idea di dar vita a un Parlamento forte che facesse da contrappeso al potere del governo e del presidente del Consiglio. Mai più, si disse, ‘un uomo solo al comando’.

In quella scelta di 70 anni fa trova radice quello che gli addetti ai lavori chiamano il ‘bicameralismo perfetto’ italiano: due assemblee che fanno le stesse cose e che devono mettersi d'accordo su ogni legge, esaminandola e riesaminandola fino a che non venga approvata nello stesso identico testo dai due rami del Parlamento, virgole comprese. Ma tutto questo, inevitabilmente, allunga i tempi, favorisce i possibili piccoli e grandi ricatti dei parlamentari e rafforza il potere delle lobby, che nelle lungaggini dei due palazzi ci sguazzano. Su questa analisi (quasi) tutti sono d'accordo.

Le divergenze riguardano la sorte del Senato: abolizione o trasformazione? La riforma della Costituzione voluta da Matteo Renzi, dalla ministra Boschi e dalla maggioranza che l'ha approvata opta per la seconda alternativa. Lo schieramento del no al referendum sostiene che la soluzione trovata è un gran pasticcio.

Le cose stanno così: il Senato non viene abolito, come qualcuno avrebbe pure voluto, ma subisce una tale cura dimagrante che non avrà più nulla a che vedere con il suo progenitore, tranne il nome. Le due Camere non saranno più gemelle: saranno al più sorelle che neanche si somigliano troppo.

Tanto per cominciare, i senatori prossimi venturi (95 più altri 5 scelti dal presidente della Repubblica) saranno eletti dalle Regioni tra i proprio consiglieri, sulla base delle indicazioni degli elettori. Già questo basterebbe a mandare in soffitta il sistema parlamentare che l'Italia conosce da sette decenni. Se poi si aggiunge che il Senato non sarà più chiamato a dare la fiducia al governo (attenzione, l'importanza della disposizione risiede nel suo rovescio: con la riforma il Senato non potrà più mandare il governo a casa) si comprende qual è la posta in gioco del referendum: un sistema in cui il fulcro della politica avrà due attori principali, il governo e la Camera, e un comprimario, il Senato.

Ancorché rimpicciolita e depotenziata, l'antica assemblea senatoriale non si trasformerà in un circolo degli scacchi. Tutt'altro. Il Senato sarà chiamato a votare al pari della Camera sulle riforme, sulle leggi costituzionali e sulle normative europee (tutte le altre leggi le potrà richiamare e modificare, ma la Camera avrà l'ultima parola). In più i senatori concorreranno ad eleggere il presidente della Repubblica, eleggeranno due giudici della Corte Costituzionale e avranno le stesse immunità giudiziarie concesse ai deputati (ma non i soldi).

In più la riforma prevede l'abolizione definitiva delle Province e del Cnel, organo costituzionale che non ha lasciato tracce nella storia repubblicana, e una stretta sul federalismo: le Regioni portano nella Capitale i loro senatori, ma lo Stato si riprende tutte le materie che precedenti riforme avevano assegnato loro in condominio con Roma. Agli elettori del 4 dicembre la decisione se questa riforma sia una rivoluzione democratica o un'occasione mancata.

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