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La maledizione della Brexit, via i protagonisti

Cameron, Johnson e Farage. Tre uscite di scena con destini diversi

A volerla buttare sul ridere si potrebbe evocare la maledizione della Brexit. Quella che ha investito i protagonisti da prima pagina d'una campagna referendaria che ha spaccato la Gran Bretagna e ne ha decretato - se non altro nella volontà popolare - il divorzio dall'Europa di Bruxelles: David Cameron, Boris Johnson e Nigel Farage. Via tutti, per ora, da una parte e dall'altra della barricata. In realtà le cose sono serie. E le vicende che hanno accompagnato l'uscita di scena (annunciata) di queste tre figure assai diverse. Come le prospettive future degli interessati. Ma un po' d'ironia appare legittima verso il Paese che del sense of humor ha fatto uno stile di vita. Da esercitare in genere con garbata ferocia sul resto del mondo. Tanto più che il cambiamento epocale suggellato dal voto del 23 giugno proietta i suoi bagliori - sinistri o meno - su una scena politica da operetta, più che da tragedia. Con attori, attrici e comparse impari al ruolo, nel giudizio di qualche osservatore esterno. Di volti davvero nuovi non si vede neppur l'ombra in un'isola in cui l'establishment, almeno quello descritto in un memorabile saggio del 2014 di Owen Jones, enfant prodige anticonformista del Guardian, resta tentacolare quanto gattopardesco. E non è un caso che i favori del pronostico siano adesso per la 'grigia' Theresa May: 60 anni, veterana del governo, beniamina della destra conservatrice, affidabile per il notabilato dei grandi elettori, ambigua quanto basta sul dossier europeo. Lo sconfitto vero, senz'appello, è in effetti Cameron. Non ha neppure 50 anni e ha saputo annunciare le dimissioni con una certa grazia all'indomani del voto, gli viene riconosciuto. Ma è difficile immaginare - ora - un qualunque suo recupero sulla scena che conta in patria. Negli ultimi decenni, l'impresa di rientrare a Downing Street dopo esserne stati messi fuori dagli elettori è riuscita solo al laburista Harold Wilson e a un certo Winston Churchill. Meglio evitare paragoni. A maggior ragione dopo una sconfitta di portata storica come quella sull'Europa: se Cameron ha ragione oggi nel dire che l'uscita dall'Ue è destinata a portare un mare di guai e incertezze al regno, la sua colpa è stata quella d'aver cavalcato per anni la narrativa euroscettica e azzardato poi la carta del referendum 'o la va o la spacca' per piccoli calcoli (pasticciati) di bottega; se viceversa il suo fosse solo allarmismo e disfattismo, come dicono gli avversari, la colpa è d'aver sbagliato bandiera in un partito naturalmente brexitista come quello conservatore. In ogni caso sarà dura rovesciare il verdetto della storia. Diverso il caso del 'pittoresco' Johnson. La sua mancata candidatura è frutto del tradimento dell'ex compagno di cordata referendaria Michael Gove. Paga le ambizioni di un altro vincitore. Ma anche se i suoi molti detrattori (ad esempio la columnist Marina Hyde) lo dipingono ora come uno che, dopo aver picconato l'esistente, si mette in disparte "evitando di dover ripulire le macerie", potrebbe persino trarre giovamento dallo stop over. Aggirando i rischi della transizione in attesa di un'altra chance e continuando a pontificare intanto dalla sua tribuna sul Telegraph: da dove oggi tuona contro l'isteria che, a sentir lui, accomuna gli sconfitti del referendum sull'Ue agli 'orfani' della principessa Diana d'una ventina di anni fa. Resta da dire di Farage, che si dimette a sorpresa con mossa teatrale da leader dell'Ukip dopo aver aver fatto uscire - parole sue - "il genio dell'euroscetticismo dalla lampada" e firmato l'obiettivo di una vita. Ma in realtà resta assiso tranquillamente nell'Europarlamento, in 'terra nemica', fino a che la Brexit non diverrà realtà. E, facendosi di lato, alleggerisce da una presenza ingombrante (la sua) un partito che magari potrà essere sdoganato da un futuro premier Tory..
   

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