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Via 2 popolari, governo al Senato rischia per fronda Pd

Senatore Mario Mauro: 'Le nostre idee contribuiranno alla costruzione e all'organizzazione di una maggioranza politica nel Paese centrata sui valori popolari e liberali'

Archiviato il voto delle regionali, gli effetti politici, soprattutto della frammentazione che si è creata nel centrodestra, cominciano a far sentire i propri effetti al Senato: la camera destinata a diventare il vero terreno di scontro tra maggioranza e opposizione. Due senatori del gruppo Gal, della componente "Per l'Italia", Mario Mauro e Tito di Maggio annunciano di voler uscire dalla maggioranza per seguire due strade diverse che portano entrambe verso l'opposizione. Mauro ufficialmente resterà nel gruppo Grandi Autonomie e Libertà, ma con un piede sempre più dentro Forza Italia, mentre Di Maggio aderisce alla nuova formazione messa in piedi da Fitto a Palazzo Madama dei "Conservatori". Sulla carta, commenta subito il capogruppo del Pd Luigi Zanda, "cambia poco o nulla" perché si tratta di due soli voti che si spostano. E solo formalmente, dal momento che il vecchio gruppo dei popolari aveva già votato contro il governo su alcuni provvedimenti pesanti, come l'Italicum. Anche se da un punto di vista più politico, si insiste nel centrodestra, si capisce come il Senato potrebbe trasformarsi davvero nel "Vietnam" vagheggiato da Renato Brunetta. Oltre al "piccolo strappo" di Mauro e Di Maggio", infatti, (l'altra senatrice dei Popolari Angela D'Onghia non li segue perché essendo sottosegretario all' Istruzione non rinuncia all'incarico di governo), la vera incognita nella Camera Alta resta la minoranza Dem determinata più che mai a dar battaglia, come dimostrano anche gli scritti su Facebook contro la riforma della scuola di Walter Tocci e Corradino Mineo, entrambi componenti della commissione Istruzione. All'esame del Senato infatti ci sono testi importanti come quello della scuola o il ddl sulla prescrizione e i numeri di scarto sui quali il governo può contare sembrano oscillare tra i 9 e gli 11. La maggioranza infatti sulla carta può contare su 112 senatori Pd (il presidente non vota per consuetudine), 36 centristi, 19 del gruppo Per le Autonomie (anche se Ciampi e Piano di solito non votano), 3 del gruppo Gal (composto da 15 senatori) che sono quelli che hanno detto sì all'ultima fiducia. Ma tra questi è difficile calcolare ora Mauro e Di Maggio che su alcune fiducie hanno votato contro e su altre a favore. Quella sul ddl banche ad esempio hanno detto tutti e due "no" mentre sull'ultima non hanno votato. Poi c'è una pattuglia di 3-5 senatori del Misto (con le 'new entry' Bondi e Repetti) per un totale di circa 175 voti rispetto a un'opposizione "forte" di 145 voti. Ma all'ultima fiducia hanno votato a favore in 172, cioè 11 in più dei 161 necessari, anche se in quell'occasione dissero sì anche Bondi e Repetti. In questo quadro piuttosto complesso e ballerino di cifre la vera differenza potrebbe farla solo la sinistra Pd (24 i firmatari del documento del dissenso sulle riforme anche se i veri "contras" pronti a tutto non sarebbero più di 15/16). Ora, premettendo che dopo le regionali nessun partito vorrebbe davvero andare al voto anticipato, Renzi, si spiega al Senato, avrebbe due possibilità per assicurarsi vita lunga e duratura: ricompattare i Dem dando assicurazioni magari sul capogruppo alla Camera e sulla modifica di alcuni provvedimenti cardine come la riforma della Scuola e quella del Senato e cercare di capire meglio le trasformazioni dell'arcipelago del centrodestra. Al di là della nuova squadra fittiana infatti si dovrebbe capire bene su quali numeri può contare Verdini e su quanto in Ncd sarebbero pronti a restare con Renzi senza consegnarsi nelle braccia di Salvini. L'ipotesi di modificare l'Italicum concedendo le coalizioni come chiedono Alfano e Quagliariello infatti, si osserva tra i Dem, sarebbe "una scelta suicida che ricompatterebbe di nuovo il centrodestra" a tutto svantaggio del partito democratico.

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