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La Russia è con voi!

Finalmente usciamo dalla base. Finalmente (scusate ma quando ci vuole ci vuole) la Siria. Ci muoviamo da un posto all’altro come giocassimo a twister, con macchine fotografiche, smartphone, telecamere in mano. I pulman filano in convoglio, due autoblindo fanno da battistrada, poi si alternano (un bus un blindato, con alla mitragliatrice in torretta un soldato russo in pieno assetto da battaglia) e due chiudono. I più cauti indossano subito i giubbini anti-proiettile. Il sonno passa in un baleno e la costa sfila sulla nostra destra. Allora andiamo a sud. Poi puntiamo all’interno. Ovunque ci sono poster di Bashar al-Assad, il presidente siriano accusato di aver trucidato il suo popolo pur di restare al potere e non essere travolto dalla primavera araba. Sono già passati cinque anni. I danni della guerra, in questa parte del paese, sono minori, non è qui che sono avvenuti gli scontri peggiori, ma ad ogni modo il paesaggio è segnato. Dall’incuria e dall’immondizia, soprattutto. Capirai, se sei in piena guerra civile la pulizia delle strada è l’ultimo dei tuoi problemi.
Ma non è un bel vivere.

La Siria scorre - e quando ti ricapita di vederla oggi come oggi? - ma la stanchezza, complice il rollio dell’autobus, ha il sopravvento. Dormiamo tutti. A turno. Casualmente. Si consolidano le amicizie. Il mio compagno di posto è un giornalista brasiliano, corrispondente da Mosca per l’emittente O Globo. Quando mi sveglio, se vedo qualcosa di interessante, gli dò un colpo col braccio. Lui fa lo stesso. Lui s’è portato dietro più acqua di me, molto gentilmente la condivide. Sopratutto ha dei wafer. E mi salva da un calo di zuccheri fulminante. Si va avanti così. Per ore. Attraversiamo valli verdi rigogliose e filari di ulivi meravigliosi - ma tempestati di sacchetti di plastica. Sono ovunque. Appena si alza il vento mulinellano nel cielo. Uno spettacolo tremendo, da stringerti il cuore. Poi arriva il podere di qualcuno che non è scappato (ancora?) e lo vedi curato come un figlio, terra nera che dà buoni frutti, le canne di bambù in fila, ogni cosa pulita al suo posto. Atolli in mezzo a un oceano in tempesta. Ma perché l’uomo è così bestia, e le bestie mi perdonino.

Il convoglio a un certo punto rallenta e s’inerpica per un tratturo. Davanti a noi compare un villaggio, o meglio, un’accozzaglia di costruzioni di cemento diroccate. All’ingresso del paesino - ci dicono che siamo a Kawkab, per Wikipedia poco più di mille anime prima dello scoppio della guerra - ci attendono centinaia di persone e decine di militari siriani. E non uso un verbo a caso: proprio ci aspettano. Quando gli autobus percorrono la via centrale del villaggio uomini donne e bambini salutano e sventolano i cartelli con su la foto del faccione di Assad. Sono confuso. Chi sono queste persone? Perché siamo stati portati qui? Le informazioni scarseggiano. Tutti a quel punto indossano i giubbini anti-proiettile e scendiamo dai bus. I blindati si dispongono sul perimetro del villaggio per presidiare le vie d’accesso e compaiono i pick-up con le mitragliatrici montate sul pianale. Al centro del paese ci sono dei camion militari russi carichi di aiuti umanitari - sui sacchi di farina c’è la scritta “la Russia è con voi!” - e non appena i nostri cane pastore danno il via libera ci viene permesso di avvicinarci alla popolazione locale. Iniziano canti, balli e musica. Contemporaneamente, in un grande tendone, un ufficiale russo annuncia la firma di un trattato tra gli anziani del villaggio e il governo siriano.

“In questo paese - ci viene detto - per molto tempo è passata la linea del fronte, qui combattevano militanti e truppe governative. Ma i militanti sono stati respinti ed è iniziato il processo di pace. Un lavoro lungo e faticoso. Oggi qui si firma il trattato per il ritorno dei civili. La gente vuole vivere in pace. L’amministrazione e il governo lo desiderano. Ora le gente è tornata nella loro città ed è pronta a lavorare per la ricostruzione”. Segue la firma del documento e poco dopo la deposizione delle armi da parte dei ribelli. Ribelli buoni, ovviamente, non i cattivoni dell’Isis o di al-Nusra, che non sono coperti dalla tregua e quindi restano obiettivi legittimi sia per le forze russe che per quelle siriane. Le televisioni filmano, i fotografi fotografano. Gli interrogativi però restano. Quando è stato ‘liberato’ il villaggio? Secondo i russi “recentemente”. Termine vago. Dopo qualche insistenza di un gruppetto di noi della carta stampata saltano fuori i primi numeri: due mesi, forse tre. Non la settimana scorsa, dunque. Perché portarci qui ora? Per assistere alla firma del trattato, ovviamente. Pare che i negoziati siano durati un mese. Parlando coi soldati siriani e con alcuni abitanti del posto emergono però dati differenti. Il villaggio - mi dice un militare che parla qualche parola d’inglese - è stato liberato 5 mesi fa. Ora è sicuro ma le postazioni di al-Nusra si trovano a 7-10 chilometri di distanza. Si forma un capannello. Altri colleghi si avvicinano, ognuno col suo metodo personale per attaccare bottone - c’è chi distribuisce sigarette, chi parla di calcio. Come sempre in questi casi, quando viene fuori che sono italiano, si allargano grandi sorrisi e immancabilmente spuntano i mostri sacri dell’italianità del mondo. La pappa, ad esempio. Mahmoud mi racconta che il suo piatto preferito sono gli spaghetti al pomodoro con su tanto parmigiano. E sai che c’è Mahmoud? Pure il mio. Poi si snocciola il rosario dei nomi degli italiani che hanno fatto grande nel mondo il nostro paese: Pirlo, Baggio (maddai, ancora?), Buffon. Un altro soldato, più giovane, interviene e con aria molto professionale spiega a tutti che no, Francesco Totti è il vero campione. Parlano in arabo ma il significato è chiaro. Vai, pensiamo, il ghiaccio s’è rotto. Ma sul più bello passa un graduato e con un’urlataccia richiama i soldati all’ordine. Addio raccolta d’informazioni.

E’ impossibile dire con certezza come siano andate le cose a Kawkab. Di certo c’è che nel paese, a garantire la sicurezza, c’erano la Guardia Nazionale e le forze speciali siriane. I soldati dell’esercito, ci dicono, sono stati dislocati intorno al villaggio. Ma il loro numero è in netta minoranza. E non è un dettaglio secondario. Come mi spiega un amico esperto di cose arabe, Enrico De Angelis, che ha vissuto a Damasco e ora è basato al Cairo, dove fa l’analista, “una generazione di alawiti è stata spazzata via dal conflitto”. L’esercito siriano ha i numeri all’osso. Secondo i suoi contatti militari, a Palmira a combattere ci sono andati battaglioni di miliziani iracheni sciiti e di Hezbollah. Non i siriani. Semplicemente perché non ne hanno le forze. “Quand’anche si raggiunga un accordo di pace - mi dice - come pensa il governo siriano di mantenere il controllo del territorio?”. Bella domanda. A Kawkab la risposta sembra essere lo sfinimento per cinque anni di guerra civile. Ma ripeto, è solo una sensazione. Dopo averci fatto vedere quello che volevano farci vedere, i russi ci caricano di nuovo sui bus e si fa rotta verso l’albergo di Latakia: il tramonto si avvicina e ci aspettano almeno altre tre ore di strada.

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