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Via della Seta: tutti i rischi che l'intesa pone per l'italia

Dal flop del Pireo al deficit polacco, molte le criticità delle intese precedenti

Un memorandum d'intesa che apre ulteriormente all'export cinese, imputato numero uno della crisi industriale dell'Occidente degli ultimi venti anni. E dà a Pechino un ambito riconoscimento geopolitico: quella del primo Paese del G7 a distanziarsi dagli Usa, proprio quando l'alleato è nella fase critica di un duro braccio di ferro sui dazi con Pechino.

In cambio, dall'adesione alla 'Belt and Road Initiative' che si appresta a firmare col presidente cinese Xi Jinping, il governo si aspetta "sbocchi di mercato più ampi" in Cina, come ha spiegato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. La riduzione di un deficit commerciale di oltre 12 miliardi di dollari. E un afflusso di investimenti, specie infrastrutturali.

Ma non è chiaro quale sarà il settore di punta dell'export italiano, quello in grado di generare grossi volumi. E i rischi per l'Italia esistono, se il National Security Council Usa ha lanciato l'allarme di un "approccio predatorio agli investimenti" a fronte di "nessun beneficio per il popolo italiano". E non si tratta soltanto della 'trappola del debito' con cui la Cina potrebbe in qualche modo usare i suoi investimenti come leva per ottenere un'Italia politicamente addomesticata.

Lucrezia Poggetti, ricercatrice italiana all'istituto Mercator di Berlino e già nella delegazione Ue in Cina, è convinta che "il Mou avrà un alto costo politico per l'Italia, in cambio di benefici economici limitati". Un nodo critico è che l'export italiano in Cina, circa 13 miliardi di euro nel 2018 contro i 94 miliardi della Germania o i 21 della Francia (dati Eurostat) non appare limitato dalla capacità di trasporto. Ma piuttosto da ciò che l'Italia produce.

"I cinesi non sanno nemmeno cosa comprare da noi" taglia corto Alberto Forchielli, partner fondatore del fondo Mandarin e attento osservatore del negoziato Usa-Cina. La Francia vede il suo saldo variare di pari passo con mega-ordini come quelli di Airbus.

Ma, soprattutto, l'Italia non ha la capacità e competitività che spingono i volumi di beni d'investimento che la Francia ottiene con maxi-commesse aerospaziali, come quella di oggi fra Xi e il presidente Francois Macron per 30 miliardi di euro. La Germania esporta grossi volumi con colossi come Siemens o Basf. In un mercato dell'auto cinese ormai maturo e dove sono presenti oltre una ventina di marchi, Fca nel 2017 era ferma a poco più di 200.000 vetture: sono lontanissimi i tempi di Romiti, in cui Iveco dominava il mercato dei veicoli commerciali cinesi con il suo Daily. 

Per contro Bmw, Volkswagen importano dalla Germania le componenti delle auto che producono in Cina, oltre sette milioni di immatricolazioni complessive. E l'auto, le loro componenti e gli aerei rappresentano i maggiori volumi che l'Europa esporta in Cina. Certo, c'è la meccanica italiana, c'è il lusso, c'è l'export agroalimentare salito al record ei 439 milioni di euro nel 2018 (dati Coldiretti). Domina il vino, con 127 milioni. Ma sono volumi bassi e difficilmente strozzati da problemi di trasporto.

E' la stessa Coldiretti ad aver evidenziato che la Cina "frappone ostacoli" con "estenuanti negoziati e dossier che durano anni". Per Luigi Scordamaglia, presidente di Filiera Italia, "la Cina non è pronta alla reciprocità". Il rischio è rivivere le aspettative, deluse, che nutrivano molti dei 16 Paesi dell'Europa centro-orientale che nel 2012 firmarono un accordo simile. Puntavano a ridurre il deficit commerciale e spingere gli investimenti. Ma la Polonia ha visto il deficit commerciale con la Cina triplicarsi dai 10,3 miliardi di dollari del 2012 ai 28,4 dello scorso anno e lamenta terminali intasati dai container cinesi.

E gli investimenti? molti i benefici sulla carta per l'Italia, dove una spinta alle infrastrutture è un obiettivo vitale. Ma Fra i firmatari del '16+1' hanno visto risultati tangibili solo i Paesi balcanici, mentre nella Repubblica ceca "ce ne sono stati molto pochi", spiega Richard Turcsanyi, un ricercatore specializzato nella Cina alla Palackì University.

C'è il nodo della burocrazia, che spesso si scontra con una Cina abituata a fare in fretta: in Grecia il mega-progetto di sviluppo del porto del Pireo (580 miliardi), di cui la Cina è il principale azionista, è fermo e ne è nato un caso diplomatico. Il diavolo, nel memorandum della 'Via della Seta', si nasconderà nei dettagli e nell'implementazione.

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