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Giulio Regeni, un ricatto di Stato

Quattro anni dopo, Arcuri firma inchiesta e apre nuovi scenari

CAMILLO ARCURI, "GIULIO REGENI. RICATTO DI STATO" (ed. Castelvecchi, pp. 144 - euro 16,50). È il 25 gennaio 2016. Al Cairo, in Egitto è il quinto anniversario della rivolta di Piazza Tahrir e si respira un'aria da stato d'assedio. Un giovane ricercatore italiano si prepara per una cena di compleanno. Manda un messaggio alla fidanzata. Esce, diretto alla fermata della Metro di El Behooth. E sparisce. Nove giorni dopo, il 3 febbraio, giorno della visita ufficiale della delegazione italiana, il suo corpo verrà ritrovato sulla desert road per le piramidi nei dintorni di Giza. Così violentemente martoriato e torturato, che sua madre lo riconoscerà solo "dalla punta del naso".
    Quattro anni ed è ancora un mistero l'omicidio di Giulio Regeni, il 28enne dottorando a Cambridge, che sapeva sette lingue, esempio dei nuovi giovani cresciuti senza frontiere, arrivato al Cairo per le sue ricerche di studio. Alla vigilia dell'anniversario della scomparsa, il giornalista Camillo Arcuri, già inviato per Il Giorno e il Corriere della Sera, prova a rimettere ordine fra le (poche) certezze e i molti sospetti con "Giulio Regeni. Ricatto di Stato" (in libreria per Castelvecchi), inchiesta che ripercorre i quattro anni di indagini, omertà, depistaggi, morti, allargando lo scenario alle alte sfere egiziane e alla politica internazionale. E inserendo la scomparsa di Giulio Regeni in una fotografia dell'Egitto ben diversa dal paradiso di spiagge dorate e faraoni.
    "I dati non ufficiali, anzi clandestini - scrive il giornalista - sono agghiaccianti: uno o due cittadini scomparsi ogni giorno, come Giulio, ossia un paio di migliaia di desaparecidos dal 3 luglio 2013 (data d'insediamento della giunta golpista) ad oggi. In più, 60.000 detenuti politici, come dire tutti gli abitanti di una città come Salerno, anziani e bambini compresi, ingabbiati per avere condiviso opinioni non conformi". Fra loro, per dirne uno, è finito anche Ibrahim Metwally, rappresentante dell'associazione famiglie delle vittime di "sparizioni involontarie", arrestato un attimo prima di salire su un aereo per Ginevra dove lo attendeva il gruppo di lavoro Onu, proprio, "sui desaparecidos in Egitto".
    Quasi certamente Giulio venne creduto una spia. Anche lui, probabilmente sarebbe finito in quell'elenco di migliaia di persone, generalmente giovani, come dice nel libro la giovane giurista francese Khadidja Nemar, "sparite nel deserto, dopo essere state uccise sotto tortura" e che Arcuri oggi accosta ai desaparecidos dell'Argentina o del Cile degli anni Settanta.
    Un conflitto tra gli apparati civili e quelli militari sarebbe invece la ragione della sua morte e del ritrovamento del corpo. Ma chi tradì Giulio? Noura Wahby, "la sua più cara amica di Cambridge", come lei si autodefiniva, "che gli telefonava spesso e ogni volta chiamava subito dopo un contatto collegato ai servizi segreti del Cairo"? Il coinquilino, l'avvocato Mohamed El Sayed, che gli nascose di aver fatto entrare la polizia nella sua stanza durante le vacanze di Natale? Mohamed Abdallah, capo del sindacato dei venditori ambulanti? Nel paese dove il presidente al-Sisi è stato eletto con il 96% di voti nel 2014 e con il 97% nel 2018, il caso Regeni rischia di diventare un altro caso Alpi, tra falsi proclami, ostacoli continui, prove che spariscono (come i 20 minuti video delle telecamere della Metro che avrebbero ripreso la sparizione di Giulio) e resistenze delle autorità egiziane. E anche oltremare, tra ambasciatori ritirati e riassegnati ed ex ministri dell'Interno per i quali "l'anelito di una famiglia non può determinare la politica dello Stato", la ricerca della verità si piegherebbe davanti a ben altre priorità nei rapporti Italia-Egitto, come le migrazioni, il petrolio, l'economia, il turismo.
    Intanto la Procura di Roma ha deciso di procedere da sola contro gli ufficiali egiziani accusati dell'omicidio e del relativo depistaggio. Ma davanti al rischio che la verità storica non possa mai diventare verità giudiziaria, forse la virata decisiva, suggerisce Arcuri, potrebbe essere l'archiviazione e poi il ricorso all'Aja o alla Corte dei diritti umani di Strasburgo, sebbene, per paradosso, l'Egitto di al-Sisi venga classificato "tra i Paesi più rispettosi dei diritti umani" a livello di organismi internazionali. Sarebbe "non una resa", spiega l'autore, ma "il passo necessario per accedere a un'istanza internazionale" mentre "il conseguente deposito degli atti, renderebbe di pubblico dominio il contenuto dei dieci faldoni dell'inchiesta, con i loro destabilizzanti segreti. Ciò che potrebbe innescare uno scandalo mediatico di dimensioni globali, da cui l'immagine ufficiale dell'Egitto uscirebbe a pezzi. Resta da vedere se un simile rischio potrebbe spingere Il Cairo a togliere finalmente il catenaccio, ossia scaricare almeno gli esecutori materiali di un delitto di Stato". (ANSA).
   

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