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Gualazzini, l'Africa nel suo dolore e resilienza

In Resilient, primo libro del fotografo con reportage 2009-2018

(ANSA) - ROMA, 6 FEB - Donne stuprate in Congo, madri che piangono i loro figli, bambini che giocano sul relitto di un bombardiere in Sudan, miliziani del Mali che si addestrano. Entra nel dolore ma mostra anche come si possa resistere positivamente a un trauma il fotografo Marco Gualazzini, autore di numerosi reportage in Africa. Ottantacinque foto realizzate fra il 2009 e il 2018, accompagnate da testi, sono state raccolte in 'Resilient', il suo primo libro, che esce per Contrasto in edizione in italiano e inglese, con la prefazione di Domenico Quirico e la postfazione di Gianluigi Colin. E  alcune sono anche in mostra, fino al 24 marzo, a Forma Meravigli a Milano.

"Il fotogiornalismo mette in contatto noi con il mondo che vive la guerra, la carestia, gli stupri. Si crea un ponte. Questa è la base delle mie foto" spiega all'ANSA Gualazzini, 43 anni che guarda al fotogiornalismo classico, ad autori molto attenti alla luce, alla composizione fra i quali cita Sebastiao Salgado e James Nachtwey. "Guardo in modo maniacale alla composizione. Da quando ho iniziato a fotografare, il fotogiornalismo è morto. L'avvento dell'era digitale, i cellulari, Instagram che fagocita immagini hanno reso più difficile da gestire la mia professione" racconta. Basti pensare che "nel 2015 Instagram ha festeggiato i primi 5 miliardi di fotografie condivise sui social di cui un terzo sono sul cibo che mangiamo, un terzo sono di gattini e un terzo sono selfie. Cosa rappresenta questo tipo di fotografia? Racconta in modo molto lucido una sterilità culturale che la nostra epoca sta attraversando" dice Gualazzini. E in questo contesto si inserisce il suo modo di fotografare e "quello dei colleghi - dice - che come me fanno reportage. Non tanto come forma, io attingo al reportage classico, ma come contenuto la nostra diventa una fotografia punk, di protesta nei confronti di una società nella quale magari non ci rispecchiamo completamente. Una società troppo consumistica, basata apparentemente su valori troppo effimeri dove le immagini vengono fagocitate. Il mio è un approccio più lento, che richiede una riflessione più profonda" sottolinea.

Per Gualazzini che ha realizzato anche reportage sulla microfinanza in India, sulla libertà d'espressione in Myanmar, sulla discriminazione delle minoranze in Pakistan e ha ideato e partecipato alla realizzazione di un documentario per la RAI sul sistema delle caste in India, premiato per la "miglior fotografia" al Al- Jazeera International Documentary Film Festival, e ha diretto un documentario sul tema dello stupro come arma di guerra in Congo, è fondamentale entrare in relazione con i soggetti che fotografa. "Miro a ritornare tante volte e il più possibile negli stessi posti. Sono stato 4 volte in Somalia, dove ci sono grandi problemi di sicurezza; 5-6 volte in Congo dove ho creato dei legami profondi, che coltivo. Più avanti vado e più mi rendo conto che è un dovere morale tornare una volta raccontata la storia delle persone che ho incontrato. Non si può entrare nella loro vita nel frangente dell'emergenza e poi andarsene, portare la storia in Italia e darsi una scrollata di spalle. Entrando nel dolore degli altri hai bisogno di qualcuno che ti apra le porte, che ti accolga. Perchè dovrebbero accettare di far entrare una macchina fotografica nella loro intimità? Diventa un impegno civile" racconta.

In Somalia è stato più difficile creare questo coinvolgimento: "li è necessaria la scorta, puoi stare sul terreno al massimo tra i 10 e i 15 minuti perchè c'è il rischio di essere rapiti" spiega. Ma accanto a tanto dolore c'è la capacità di fronteggiare gli eventi più traumatici come nella foto che ritrae il Lido di Mogadiscio nel 2017, pieno di gente sullo sfondo, con una donna in primo piano totalmente coperta, di cui si vedono appena gli occhi e la mano e accanto un'altra che tiene un telefonino. "Ci ho messo due anni per scattare questa foto. E' la parafrasi visiva di quel titolo di Enzo Nucci 'Le ragazze di Mogadiscio vanno al mare'. Se non c'è speranza, se non c'è resilienza è tutto vano" dice convinto Gualazzini.
   

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