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Così è nata l'indagine sul Covid a Bergamo

Dall'ospedale fino alla mancata zona rossa e al piano del 2006

 Il fascicolo fu aperto ai primi di aprile, non molti giorni dopo che quelle immagini delle bare trasportate dall'Esercito avevano fatto il giro del mondo. Ed è stato chiuso dopo 3 anni con migliaia di pagine di atti finiti nell'inchiesta sulla gestione della pandemia di Covid e sulla diffusione "incontrollata" dei contagi nella Bergamasca.
    Indagine che ora può far finire a processo quella classe politica che cercava all'epoca soluzioni in una situazione mai affrontata, ma anche vertici, dirigenti e tecnici delle istituzioni sanitarie nazionali e locali.
    Tassello dopo tassello, nell'indagine con al centro la più grave ecatombe d'Europa di quei mesi drammatici, si è arrivati a rintracciare presunte responsabilità sui due fronti principali dell'inchiesta: la mancata attuazione del piano per contrastare le pandemie, che c'era anche se fermo al 2006, e la decisione di non istituire la zona rossa ad Alzano e Nembro, il focolaio della Val Seriana, come invece era avvenuto già il 23 febbraio nel Lodigiano.
    L'inchiesta, prima di allargarsi fino a toccare le decisioni prese a Roma, partì inizialmente con accertamenti molto più localizzati, sulle presunte anomalie nella gestione dei pazienti all'ospedale di Alzano Lombardo, dove il pronto soccorso venne chiuso e riaperto in poche ore il 23 febbraio, dopo la scoperta dei primi casi positivi.
    Coordinata dall'aggiunto Cristina Rota, affiancata nel tempo da 4 pm, Silvia Marchina, Paolo Mandurino, Guido Schininà e Emma Vittorio, e sotto il coordinamento del Procuratore Antonio Chiappani, le indagini sono andate avanti passo passo guardando a quei numeri delle vittime che si moltiplicavano di giorno in giorno. Nel marzo di tre anni fa, ha stabilito poi la maxi consulenza affidata nel giugno 2020 al microbiologo Andrea Crisanti, a Bergamo e provincia i morti erano stati quasi 5.200 in più della media mensile degli anni precedenti, che si aggirava attorno agli 800. A queste cifre spaventose gli inquirenti hanno cercato di dare risposta. Una strage che, intanto, si consumava anche dentro le Rsa, dove in due mesi sono stati registrati circa 1300 morti contro una media precedente di 600.
    Tra i primi indagati per epidemia colposa ci fu l'allora dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, oltre ai vertici dell'Asst Bergamo Est. A fare salire di livello l'inchiesta, dopo una serie di audizioni a Roma, tra cui quelle dell'ex premier Giuseppe Conte, dell'ex ministro della Salute Roberto Speranza e dei tecnici del ministero e del Cts (che sono finiti indagati), sono stati gli accertamenti che hanno riguardato proprio la mancata creazione della zona rossa. Con quelle testimonianze si scoprì che il piano pandemico non era stato aggiornato dal 2006 e che non era stato nemmeno applicato, malgrado le raccomandazioni dell'Oms. Poi, le acquisizioni di documenti, circolari, chat estrapolate dai cellulari e mail, tra cui due di fine febbraio in cui il governatore Attilio Fontana non avrebbe segnalato criticità nei comuni della Val Seriana, né chiesto ulteriori zone rosse. Sulla questione piano pandemico, nelle pieghe dell'inchiesta, è venuto fuori pure un forte scontro tra il ricercatore dell'Oms Francesco Zambon e l'allora direttore vicario dell'organismo Ranieri Guerra, che è stato, poi, indagato per false dichiarazioni ai pm.
    Infine, a portare ad allargare l'indagine fino a Conte, Speranza, Fontana, all'ex assessore Giulio Gallera e ai molti tecnici, si è aggiunta proprio anche quella maxi consulenza di Crisanti, depositata nel gennaio 2022. Analisi che hanno confermato che presunte omissioni ed errori nella valutazione del rischio, su cui la Procura stava lavorando, sarebbero stati una sorta di "acceleratore" nella diffusione del virus che, quando fu diagnosticato il caso del Paziente 1 a Codogno, già circolava e aveva infettato un centinaio di persone nella Bergamasca. 
   

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