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Il figlio muore per un tumore, il padre 82enne veglia la tomba

Ogni giorno da 13 mesi l'uomo si reca nel cimitero di Serego

"Una piccola sedia rossa, un bastone, un padre, un figlio". La piccola sedia rossa quasi sparisce sotto il braccio di Cesare. E’ di legno, era del suo Flori. Gliel’aveva regalata quando era piccolo e adesso è il papà ad usarla, in un innaturale viaggio dove è il genitore ad andare sulla tomba del figlio. Tutti i giorni, da 13 mesi, due volte al giorno per tre ore di mattina e tre di pomeriggio, da quando cioè Florindo se ne è andato per un tumore al cervello. Il bastone per camminare è il crudele contraltare alla sedia di un bimbo ed è lì per facilitare quei passi ormai pesanti fino alla tomba di un uomo di 51 anni ancora e per sempre così figlio per questo padre che ne ha compiuti 82.

Ormai Cesare lo conoscono tutti al cimitero veneto di Serego, un paesino del vicentino che conta 6.500 anime. Lo chiamano il ‘guardiano’. E lui si ferma a parlare con tutti: con le vedove che preparano i fiori per i loro mariti, con i ragazzi che hanno perso la mamma o il papà, con chi lascia un fiore a un fratello che non c’è più. Tutti lo salutano. Ma poi il tempo si ferma e la ritualità che è così capace di rassicurare ha inizio. Arrivato alla tomba del figlio, Cesare sistema la piccola sedia, costruita per il peso di un bambino e non certo per quello di quest’uomo che non si rassegna. Eppure, come se anche lei sapesse, si prepara ad accogliere il riposo di un padre senza rompersi, e a consentirgli di parlare ancora con suo figlio, pur senza ricevere mai più risposta.
I fiori portati a Florindo sono sempre freschi, e lui sorride per sempre, quasi di spalle, su una foto in cui è vestito di bianco. Cesare lo saluta, lo accarezza con lo sguardo e con le mani lucida la foto, gli parla, ricorda tanta vita insieme, la sua bontà. Un dialogo spesso silenzioso che si conclude con un sospiro e un arrivederci al giorno dopo. 
La sedia rossa sotto un braccio, il bastone dall’altra. Come due volte al giorno da quattrocento giorni. E la speranza, rimandata solo a domani, che da quella foto possa arrivare una risposta, anche solo “ciao papà”.

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