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Responsabilità editoriale di ASviS

Questa settimana: “Una tragedia biblica” è molto diversa da una guerra

La tecnologia ci aiuta a superare questa crisi, ma dobbiamo creare una “unità di resilienza trasformativa”.

ASviS

"The coronavirus pandemic is a human tragedy of potentially biblical proportions".

Comincia così l’editoriale di Mario Draghi sul Financial Times, uscita pubblica dell’ex presidente della Banca centrale europea, l’uomo che ha salvato l’euro col suo famoso "whatever it takes", citato in questi giorni come esempio di coraggio e di leadership in un momento nel quale di coraggio e leadership c’è tanto bisogno. Parlare di “tragedia di proporzioni bibliche” è più corretto, a mio avviso, rispetto alle tante metafore belliche che si sentono riecheggiare sui media. In una guerra si sa chi è il nemico da battere, si fanno sacrifici con uno scopo comune: la vittoria finale. Nei flagelli del Vecchio Testamento (pensiamo alle sette piaghe d’Egitto) c’è una Forza superiore che si abbatte sui popoli. Questa forza può essere l’Altissimo, per altri la Natura che si ribella all’uomo, o l’umanità stessa che ha aperto il vaso di Pandora e non sa più come richiuderlo.

Nelle guerre (e ce ne sono state anche di giuste e necessarie come quella contro il nazismo) o si vince o si perde. In questa lotta alla Pandemia si stanno facendo miracoli, a cominciare dal sacrificio del personale sanitario e dei tanti che si devono esporre per assicurare il funzionamento minimo del sistema economico, con la complessità delle sue filiere, indispensabile alla vita di tutti. Ma siamo di fronte a un evento drammatico e globale, senza precedenti per dimensione e rapidità. Ne usciremo, certamente, ma si comincia a capire che il futuro non sarà quello che la gente fino a ieri si immaginava e che ci sono forze “invisibili” (il virus) che minacciano il genere umano. In realtà, non così invisibili alla scienza, perché tanti esperti, fin dagli avvertimenti del Club di Roma del 1972 sui limiti della crescita, hanno continuato a dircelo. Ma anche gli esperti negli ultimi tempi erano visti con sospetto, considerati parte di una “casta privilegiata” (ricordate il dibattito sulla società della post-verità?). 

Per fortuna abbiamo la tecnologia (anch’essa basata sulla scienza), che è un grande aiuto. Chiusi in casa, anche chi li ha sempre disdegnati comunica sui social. Scopriamo i vantaggi dell’online nel lavoro, nell’istruzione, nelle comunicazioni interpersonalia rischio persino di far collassare la Rete. Difficile immaginare come avremmo affrontato questa situazione non dico ai tempi della peste dei “Promessi sposi”, ma anche solo trent’anni fa, prima della nascita del world wide web. Attaccati alla televisione per avere le ultime notizie, con la sola possibilità di comunicare via telefono, ma senza accesso al sapere universale che ci dà Internet, alle possibilità di lavorare, studiare, vedere o anche giocare con chi era fuori dai confini delle nostre mura domestiche. Ma perché allora, con tutte queste possibilità che ci sono state offerte di recente, siamo stati così rabbiosi gli uni con gli altri? Perché tanto odio, tanta mancanza di solidarietà, tanta difficoltà a trovare soluzioni comuni anche a problemi che pure sono nell’interesse di tutti? Perché ci siamo capiti così poco?

Provo a rispondere raccontandovi una esperienza che ho vissuto tra il 1959 e il 2009: un intervallo di cinquant’anni. Quando avevo sedici anni, trascorsi un anno nel Nebraska, presso una famiglia americana, grazie a una borsa di studio dell’American Field Service, oggi Intercultura. Nel corso di quei dodici mesi non parlai mai al telefono con mio padre in Italia (e tanto meno con la mia fidanzatina di allora) perché costava troppo. Lettere, lettere, lettere.

Nel 2009, vidi su Facebook che i miei compagni americani stavano organizzando una festa cinquant’anni dopo la nostra graduation nella Lincoln High school. Presi un aereo e li raggiunsi. Fui accolto con grande calore. Ci raccontammo le nostre vite. Erano nel complesso persone aperte, soddisfatte della propria vita, con un grande spirito di comunità e un forte impegno civile. Ma con una visione del mondo per me incomprensibile, che portava alcuni di loro a dire che Obama era un “pericoloso socialista”. Non capivano nulla di come funzionava il mondo fuori dagli Usa. 

Ecco, oggi la tecnologia ci consente di comunicare con grande facilità, usiamo Skype per salutare quotidianamente i nostri cari che stanno lontano, ma la comprensione tra i popoli non è aumentata. Non solo per gli egoismi nazionali e l’avidità degli interessi economici, ma perché le visioni della vita sono rimaste profondamente divergenti. In Europa siamo giustamente orgogliosi del grande successo del progetto Erasmus e speriamo che i giovani ci aiutino a costruire un futuro comune. I ragazzi che conosco ne hanno ricavato un gran bene in termini di apertura al mondo e di conoscenza delle lingue, ma quasi mai hanno stabilito amicizie durature, ponti permanenti con le altre culture. In questa crisi da Coronavirus, gli aiuti sono arrivati all’Italia da Paesi lontani come Cina e Cuba, ma, come ha rilevato giovedì Beppe Severgnini Otto e mezzo, “nei nostri ospedali non c’è un solo medico che ha al braccio la fascia blu con le stelle dell’Unione europea”.

In questa torre di Babele, è un vero miracolo che tutti gli Stati del mondo siano riusciti ad accordarsi nel 2015 sui 17 Obiettivi e sui dettagliati target dell’Agenda 2030 e si capisce perché ci aggrappiamo a questo salvagente, nonostante tanti ritardi, come unica via per costruire un futuro sostenibile per tutti: una via non utopistica ma sostanziata da tanti esempi di impegno comune, che ci sforziamo quotidianamente di evidenziare con i sistemi di comunicazione dell’Alleanza.  Ma bisogna impegnarsi di più a tutti i livelli per evitare conseguenze catastrofiche. 

Anche Draghi ha detto che questa crisi è una tragedia biblica “potenziale” e che possiamo cercare di evitarla. Ha proposto una ricetta basata su un coraggioso rilancio del ruolo dello Stato nel sostenere l’economia, ed è sperabile che le sue affermazioni possano contribuire a costruire politiche europee condivise e meno egoistiche, forse un’Unione istituzionalmente più coesa. Non basta però affrontare e superare questa human tragedy, perché sappiamo che la Pandemia è un campanello di allarme di altre tragedie bibliche che potrebbero avventarsi su di noi, senza un cambiamento profondo nei comportamenti individuali e collettivi. Lo segnala anche il recentissimo documento del Gruppo socialista e democratico al Parlamento europeo “Piano d’azione per combattere la pandemia Covid-19: la proposta S&D per superare la crisi in 25 punti”.

Su che fare per “andare oltre la crisi da coronavirus” in ASviS ha parlato il presidente Pierluigi Stefanini nel colloquio che abbiamo pubblicato sul sito e che apre una serie di confronti pubblici con i nostri Aderenti. Sullo stesso punto batte e ribatte il nostro portavoce Enrico Giovanninicon numerose interviste e articoli. Il messaggio è che cii vogliono anche strutture istituzionali adeguate non solo ad affrontare l’emergenza ma a preparare il futuro. Strutture in grado di lavorare sulla “resilienza trasformativa”, cioè una reazione alla crisi che non faccia semplicemente tornare a dove eravamo qualche settimana fa, ma che cambi in meglio l’Italia, nell’ottica dello sviluppo sostenibile. Nell’articolo sull’ultimo EspressoGiovannini avanza diverse proposte sul ruolo della politica a cominciare da questa:

'... mettere all’opera i migliori esperti disponibili per immaginare come far sì che l’uscita dalla crisi sia “esplosiva” in senso positivo, cioè non segua una dinamica “lineare” ma fortemente “non lineare”. Questo vuol dire pensare subito a come creare condizioni fortemente diverse rispetto a quelle che hanno caratterizzato l’evoluzione economica italiana degli ultimi anni. L’uscita dalle crisi del 2008-2009 e del 2011-2012 è stata, per l’Italia, lenta, parziale e peggiore di quelle di altri Paesi. Non possiamo permetterci un analogo percorso anche all’uscita di questa crisi. Per questo, il Governo dovrebbe creare ora, accanto all’unità di crisi, una “unità di resilienza” con esperti delle diverse materie, che propongano interventi radicali per offrire nuove opportunità, rimuovere ostacoli (nello spirito dell’art. 3 della Costituzione) e avvii un nuovo ciclo di sviluppo molto più sostenibile sul piano sociale e ambientale, oltre che economico. Insomma, si tratta di “rimbalzare avanti” e non ”indietro” dove eravamo solo poche settimane fa, quando denunciavamo disuguaglianze sociali e territoriali inaccettabili, danni gravissimi all’ambiente e alla salute delle persone'.

Questa ricetta può valere anche per l’Unione europea e sembra che il difficile Consiglio europeo di ieri abbia deciso di andare in questa direzione, come spiega lo stesso Giovannini a “Scegliere il futuro” su Radio radicale all’indomani della riunione, presentando una lettura meno pessimista , soprattutto in prospettiva, degli esiti dell’incontro on line tra i capi di governo. Può valere per il governo italiano, ma anche per le Regioni; anche per le imprese, alle quali è chiesto di trasformarsi per sopravvivere o cogliere nuove opportunità. Non è facile, anche sul piano psicologico, fare qualcosa che agli occhi di alcuni può sembrare superfluo mentre si lotta contro l’emergenza: ci vuole freddezza e coraggio per distinguere, sotto stress, le cose urgenti da quelle importanti per il futuro. Ma, come disse Tony Blair in una intervista su come aveva imparato a fare il Primo ministro, “se non dedichi tempo alle cose importanti, ma solo a quelle urgenti, quelle importanti non le farai mai”.

 

di Donato Speroni

Responsabilità editoriale e i contenuti sono a cura di ASviS


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