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Quirinale: 1971, Natale amaro per Fanfani, arriva Leone

Eletto senza voti socialisti e con quelli Msi il 24 dicembre

di Marco Dell'Omo

Se la vendetta, come si dice, è un piatto che va consumato freddo, quella di Leone su Fanfani fu freddissima: sette anni per prendersi la rivincita sul politico aretino che con le sue manovre gli aveva sbarrato la strada per il Colle nel 1971. La rivincita è quasi un bis dello spettacolo di manovre andato in scena sette anni prima: identico il periodo, quello di Natale, quasi identico il gran numero di votazioni necessarie per arrivare all'elezione (23, due in più del 1971, record ancora insuperato).

In quel dicembre di 43 anni fa bisogna scegliere il successore di Giuseppe Saragat. A Piazza del Gesù, il segretario Arnaldo Forlani e i maggiorenti della Dc concordano tutti su un punto: dopo il laico Saragat (sotto la cui presidenza aveva visto la luce la legge sul divorzio) a salire sul colle più alto di Roma deve essere un politico democristiano. Ma la rivendicazione della poltrona quirinalizia, invece di favorire un clima di concordia, ha l'effetto opposto: sapendo che l'obiettivo è pressoché sicuro e che, salvo sorprese, non ci saranno outsider provenienti dai partiti alleati a dare fastidio, i leader Dc che aspirano al colle cominciano a manovrare per prepararsi il terreno e sgominare la concorrenza interna. Fanfani e Moro, i due "cavalli di razza" del partito di piazza del Gesù, si sono incontrati più volte per stringere un accordo: Fanfani offre a Moro la segretaria del partito in cambio del via libera al Quirinale, ma il suo rivale non è del tutto convinto. Il potente Giulio Andreotti, scherza velenosamente con Fanfani: "Beh, se il candidato sarai tu ci sarà grande compattezza nel partito, perché non ci saranno i tuoi amici a organizzare schede bianche o alternative...".

L'assemblea dei grandi elettori democristiani viene convocata l'8 dicembre, a sole sedici ore dall'inizio delle votazioni in aula. Le forze in campo si contano: ha la meglio, a scrutinio segreto, Fanfani.
Ma la corsa dell'aretino parte subito con qualche handicap: nella prima votazione del Parlamento in seduta comune gli mancano 40 voti dei grandi elettori dc , che diventano 55 nel pomeriggio. I franchi tiratori fanno restare Fanfani dietro al candidato unitario delle sinistre, il socialista Francesco De Martino, votato anche dai comunisti. la Dc non riesce a unire attorno al suo candidato il fronte dei piccoli partiti di centro: i socialdemocratici votano compatti per la rielezione di Saragat, i repubblicani non vogliono né Fanfani né Moro, i liberali scrivono sulla scheda il nome del loro segretario Malagodi. Sommando i voti di questo fronte si arriverebbe agevolmente a superare il quorum, ma le resistenze interne e esterne alla Dc sono tante . E così votazione dopo votazione, Fanfani sperimenta la triste sorte subita da Leone sette anni prima, infilato dai dissidenti democristiani che non lo vogliono al Quirinale e dagli alleati che puntano su altre soluzioni. Dalla settima votazione la Dc, sfibrata dall'infilata di insuccessi, sceglie di astenersi: un trucco per neutralizzare i franchi tiratori, che per continuare i loro giochi dovrebbero partecipare alla votazione, rinunciando così all'anonimato. All'undicesima votazione la dc torna a riproporre Fanfani, convinto di aver strappato il consenso dei partitini laici.. Ma è un nuovo "bagno": i suoi voti arrivano al punto più alto (393), ma resta ancora dietro De Martino. A Fanfani non resta che annunciare il proprio ritiro. Per altre 12 votazioni (due al giorno, mattina e pomeriggio, secondo il calendario a oltranza disposto dal presidente della Camera Sandro Pertini) la Dc si rifugia in una umiliante astensione. Gli italiani assistono giorno dopo giorno agli scrutini trasmessi in diretta tv. Il Natale si avvicina e come sette anni prima si rischia il nulla di fatto. Il 22 dicembre, alla ventiduesima votazione, le sinistre abbandonano la candidatura di bandiera di DE Martino e fanno scendere in pista il vecchio Pietro Nenni: confidano che la dc prenda atto che senza i voti dei socialisti (del resto suoi alleati di governo, dove De Martino è vicepresidente del consiglio di Emilio Colombo) non si va da nessuna parte . In alternativa i socialisti chiedono che la Dc rinunci a Fanfani e faccia scendere in pista Moro, cattolico progressista "votabile" anche a sinistra.

La Dc , se vuole mantenere il punto, deve correre urgentemente ai ripari. Matura in quelle ore la candidatura di Giovanni Leone: i repubblicani e i socialdemocratici inseriscono il suo nome in una terna comprendente anche Paolo Emilio Taviani e Mariano Rumor che però si defilano subito.

L'assemblea dei grandi elettori dc, a scrutinio segreto, viene chiamata a scegliere tra Leone e Moro. La vittoria, di misura, va a Leone, che riceve la notizia a casa, costretto a letto da una bronchite. Il numero esatto dei voti non si saprà mai perché gli scrutatori bruciarono subito le schede, come in un conclave di cardinali.

Il 23 dicembre, Leone manca il quorum per un solo voto, fermandosi a quota 503. Il giorno dopo, vigilia di Natale, viene eletto alla presidenza della Repubblica con 511 voti: lo votano democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali e missini. Una maggioranza anomala, rispetto a quella di centrosinistra che governa il Paese. Tra i suoi primi atti lo scioglimento delle Camere, appena due mesi dopo la sua elezione. I suoi sette anni al Colle finirono ancora più burrascosamente di quanto non siano cominciati: accusato dalla giornalista Camilla Cederna e dai radicali di essere coinvolto nello scandalo Lockheed (accuse mai provate, anzi la Cederna fu condannata per diffamazione e Marco Pannella gli chiese pubblicamente scusa), fu scaricato dalla Dc e costretto alle dimissioni il 15 giugno del 1978, sei mesi prima della scadenza del suo mandato.

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