ILARIA ROSSETTI, ''LE COSE DA SALVARE'' (NERI POZZA, pp. 202 - 17,00 euro).
In questo bel romanzo di Ilaria Rossetti, ispirato al crollo del ponte Morandi di Genova (anche se il nome non viene mai fatto) e che ha vinto il Premio nazionale Neri Pozza 2019, c'è appunto un crollo reale e delle macerie, che lasciano ferite e lutti non solo concrete ma anche nell'anima di chi lo ha vissuto, che diventano metaforiche, con un valore esistenziale per tutti i cedimenti, le macerie, le separazioni e perdite che contrassegnano la vita di ognuno e il mondo d'oggi. Protagonista, con l'io narrante Petra Capoani, giornalista di una testata locale che deve intervistarlo e raccontare la sua storia, è Gabriele Maestrale, pensionato, ex professore di scienze e matematica che si è rifiutato di abbandonare il proprio appartamento al quarto piano di una palazzina situata proprio sotto lo spezzone rimasto del ponte, prigioniero del passato, di quelle cose tra cui non sa scegliere quelle necessarie da salvare, da portar via, per andarsene. Sono cose materiali, ricordi di tutta una vita, della moglie Elisabetta che lo ha lasciato solo, e proprio per questo pian piano diventano oggetti che rimandano a sentimenti ed emozioni che popolano quelle mura, che quindi diventa sempre più difficile, impossibile abbandonare.
''Legare degli oggetti, un luogo, alla nostra esistenza è cosa che facciamo tutti. Ma dover abbandonare quegli oggetti e quel luogo all'improvviso, questa è tutta un'altra faccenda''.
Il tema, naturalmente, è se esiste la possibilità di salvare qualcosa e cosa salvare, fuori ma soprattutto dentro di noi.
''Forse dovrei intervistarti sulle cose che hai perso, e non su quelle che salveresti. Forse è per questo che sei rimasto, Gabriele? per le cose affondate e perdute, e non per quelle da salvare''. Come è chiaro sin dalle citazioni in apertura del libro di Cristina Campo, Alberto Savinio e i versi di Amelia Rosselli: ''C'è come un dolore nella stanza, ed / è superato in parte: ma vince il peso / degli oggetti, il loro significare / peso e perdita''. Il tutto espresso dalla Rossetti con una scrittura ricca, intensa, con sprazzi poetici tra riflessioni e concretezza, tra un pensiero che ''si liquefa e corre per le scale dell'appartamento e si insinua sotto le porte'' e il padre lasciato ''in sospeso, il mattino esile che forzava i vetri e infilava le gambe nella cucina'' o ''in una matrimonio la felicità è un animale in fuga da un predatore, occorre praticare un esercizio quotidiano per riuscire a scorgerla''.
Accanto alla vita di Gabriele, con cui nasce una reciproca comprensione e desiderio/necessità di confrontarsi e capire, prende spazio quella di Petra, che ha lasciato un buon posto da manager a Londra per tornare a assistere la madre morta di cancro. Un'altra assenza, ricordi e una mancanza, anche nella sua vita, con una situazione particolare per il padre vedovo, romanzesca ma che ha una sua funzionale ragione narrativa, nel rimandare al passato quando ''eravamo proprio dei ragazzi'' e all'adesso che ''siamo dei vecchietti, ed è troppo tardi''.
Quel palazzo pericolante davanti al fiume (si immagina il Polcevera), tra prati pieni di calcinacci e pezzi di cemento del ponte, diviene anche luogo emblematico della nostra società disastrata, incapace di capire, inospitale, mentre Maestrale divide la sua solitudine con due donne eritree, Ima e Jala, madre e figlia arrivate dopo la solita odissea dei migranti, che in quel posto dove nessuno si arrischia ad andare hanno trovato un rifugio, nascondendosi nell'appartamento abbandonato al secondo piano. E saranno loro, uscendo dal portone alla fine, quando sotto elezioni la politica deciderà di salvare Maestrale e farlo venir fuori, a dare un senso esemplare, a evidenziare la metafora, nel contrasto con la necessità e la forza invincibile, incoercibile dei sentimenti. Così la riflessione finale di Petra è: "Cammino in via dei Bastioni e lo so, di nuovo: c'era troppa fretta di salvarsi: Non avevamo capito, ancora, il senso del restare''. (ANSA).