(di Paolo Petroni)
MIRION BIALOSZEWSKI, ''MEMORIE
DELL'INSURREZIONE DI VARSAVIA'' (ADELPHI, pp. 332 - 22,00 euro -
Traduzione di Luca Bernardini). Una grande chiesa distrutta
perde il suo disegno architettonico generale per tornare a
essere un insieme di materiali da costruzione: ''I resti della
navata.... Assi. Un mucchio di macerie. Di detriti. Di calce. Di
intonaco. Di cannicciato. Di schegge. Di mattoni. Di cornicioni.
Di tutto. Di qualunque cosa''. Così la descrive il poeta Miron
Bialoszewski (1922 - 1983) nella sua Varsavia devastata dai
nazisti alla fine della insurrezione durata due mesi, dal primo
agosto al 2 ottobre 1944, cui era stato dato il via dal Governo
polacco in esilio a Londra con la speranza che i Russi, che
occupano oramai quasi la metà orientale del paese, fermi al
confine della Vistola, sarebbero intervenuti in aiuto degli
insorti. Questo non accade, ci furono quasi 200 mila vittime e
la città venne poi distrutta.
E' una pagina tragica e epica della storia polacca,
raccontata in molti modi e da molti dei pochi che sopravvissero.
Lo ricorda e inquadra storicamente in un saggio finale il
curatore dell'edizione italiana Luca Bernardini, cui si deve,
oltre all'appendice con Mappe e Glossario dei luoghi, l'analisi
del resoconto particolare, a modo suo, di Bialoszewski. Non è
uno che prese le armi o facesse parte dell'Ak, l'Armata polacca
interna clandestina, e il suo racconto di un testimone civile è
puntiglioso e attento, che non si infervora o prende partito, ma
assiste quasi da una posizione esterna del tutto antieroica e,
ovviamente, senza un filo di retorica, cose che gli attirarono
molte critiche quando furono pubblicate nel 1970, con lo stesso
editore che trovava irritanti le prime pagine per lo stile della
sintassi e la loro presunta colloquialità. ''Chiacchieravo
dell'insurrezione - racconta del resto l'autore - Con parecchie
persone.... Pensavo proprio per anni che questa insurrezione in
qualche modo la dovevo descrivere, ma proprio 'descrivere'.... e
che proprio questo chiacchierare è l'unico modo per descrivere
l'insurrezione''.
C'è però, naturale, implicito, più che nascosto in quel che
descrive, uno sguardo carico di umanità proprio dove questa
sembra non esistere più, pronto a cogliere aspetti curiosi,
contrasti, avvenimenti paradossali, situazioni più o meno
drammatiche, come quelle di coloro che vanno disperatamente alla
ricerca di cibo o la folle giostra che continua a girare a
fianco del muro del ghetto che bruciava con la gente dentro,
perché lo scrittore aggiunge anche i ricordi della rivolta del
ghetto dell'anno prima, 1943. E, mentre nelle chiese si intona
''All'armi, Gesù, Maria, all'armi'', canto della metà del
Settecento al tempo della spartizione della Polonia, girando per
la città per quel che è possibile, ecco naturalmente
bombardamenti, morti e feriti, magari visti in cantine
trasformate in precari ospedali d'emergenza, anche vicini alle
rovine di un palazzo in cui il gruppo di sfollati di cui fa
parte l'autore ha trovato precario ma, data la situazione,
confortevole rifugio. Bernardini a proposito parla dello
''stupore'' di Bialoszewski, ''unica chiave per evitare ogni
enfasi'' nel trovarsi davanti alla vita comune sconvolta dalla
violenza della Storia in queste pagine davvero uniche.
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