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Ayala, maxiprocesso cambiò lotta a Cosa Nostra

Ayala, maxiprocesso cambiò lotta a Cosa Nostra

Ex Pm, quella cena con Falcone dopo la sentenza della Cassazione

PALERMO, 10 febbraio 2016, 11:47

Redazione ANSA

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. - RIPRODUZIONE RISERVATA

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(di Franco Nicastro) Nel giorno in cui la Cassazione confermò le condanne della "cupola" mafiosa, Giovanni Falcone, che del maxiprocesso era stato uno dei padri, e Giuseppe Ayala, che in aula aveva sostenuto l'accusa, si ritrovarono a cena in un ristorante di Roma. "Hai vinto" disse il giudice all'amico pm che si schermì: "Io ho chiesto le condanne. Ma quel processo lo hai voluto e istruito tu". Su una cosa alla fine si ritrovarono d'accordo: "D'ora in poi per la mafia nulla sarà più come prima". Era il 30 gennaio 1992. In quel momento giungeva al suo epilogo la più "grande avventura giudiziaria". "In Italia - ricorda Ayala - non si era mai celebrato un processo di quella portata per il numero di accusati, che erano 475, per la natura delle imputazioni e per le incertezze di gestione del dibattimento. Non si sapeva neppure quanto sarebbe durato. Per questo furono nominati giudici supplenti, sia togati che popolari".
    Trent'anni fa, la mattina del 10 febbraio 1986, si cominciò a scrivere così uno dei più importanti "capitoli della storia giudiziaria italiana". Per la prima volta, sottolinea Ayala, i capi di Cosa nostra furono condannati all'ergastolo e in una sentenza venne spiegato cosa fosse la mafia: "Quando ci ritrovammo davanti alla monumentale sentenza di rinvio a giudizio e alla montagna di carte da portare al giudizio della corte, Giovanni Falcone mi chiese scherzando: sei proprio convinto che la mafia esiste? A quel tempo se ne negava perfino l'esistenza: si veniva dalla stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove".
    Eppure non fu facile arrivare alla sentenza che tutto il mondo aspettava. Ayala passa in rassegna gli ostacoli con cui il processo dovette fare i conti. "Per la verità, ce ne aspettavamo di più. Ma si vissero momenti davvero critici come il tentativo di ricusazione del presidente e la richiesta di lettura integrale di tutti gli atti del processo. Ricordo le frenetiche consultazioni tra difensori e imputati, le pressioni paralizzanti. Si dovettero varare in fretta nuove norme procedurali: la legge Mancino-Violante, uno democristiano e l'altro comunista. Non servì quella leggina solo a salvare il processo. Lanciava il messaggio che finalmente lo Stato stava dalla parte di un pugno di magistrati e investigatori, molti dei quali eliminati, decisi a dare una svolta storica alla lotta alla mafia".
    La scelta di campo dello Stato aprì una nuova strada. "Ma il nostro più grande alleato - dice Ayala cercando il paradosso - fu Totò Riina con la sua folle strategia di attacco allo Stato e l'assalto spietato ai vertici di Cosa nostra. Ci ritrovammo da un lato l'appoggio dello Stato e dall'altro il consenso dell'opinione pubblica. Quella stagione di sangue aveva scosso le coscienze e prodotto un esercito di collaboratori. Basta citare per tutti Tommaso Buscetta". Si può dire che con il maxiprocesso sia stato inflitto un colpo mortale alla mafia? "Demolì senz'altro il suo potere militare. Le stragi del 1992 e quelle del 1993 sono stati gli ultimi sussulti disperati. La mafia ha dovuto far tacere le armi e riesumare il modello tradizionale, tornando agli affari e all'abbraccio con la politica inquinata".
    Il maxiprocesso non ha dunque chiuso i conti con Cosa nostra? "Sarebbe illusorio pensarlo. Fu la tappa fondamentale di un cammino lungo e non privo di ostacoli: dobbiamo sempre ricordare che contro Falcone e il pool antimafia venne subito scatenato un processo di delegittimazione che arrivò fino al Csm".
   

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