Le ondate di calore marino colpiscono anche i fondali e possono essere perfino più intense e durature di quelle che interessano le acque più superficiali: lo dimostra la prima analisi completa delle ondate di calore marino, condotta sulle acque che ricoprono la piattaforma continentale del Nord America e che rappresentano un habitat cruciale per molte specie di valore sul mercato come aragoste e merluzzi. Lo studio è pubblicato su Nature Communications da un team di ricercatori guidato dall'Agenzia statunitense per lo studio degli oceani e dell'atmosfera (Noaa) a cui ha partecipato anche l'italiana Antonietta Capotondi, oceanografa fisica presso il Noaa e l'Università del Colorado a Boulder.
"I ricercatori stanno studiando le ondate di calore marino sulla superficie del mare da oltre un decennio", spiega il primo autore dello studio, Dillon Amaya del Noaa. "Questa è la prima volta che siamo in grado di immergerci davvero più in profondità e valutare come questi eventi estremi si svolgono lungo fondali marini poco profondi".
Per sopperire alla mancanza di dati, i ricercatori sono partiti dalle osservazioni fatte sulla superficie del mare (grazie a satelliti, navi e boe) e li hanno inseriti in alcuni modelli predittivi che permettono di simulare le correnti oceaniche e l'influenza dell'atmosfera, in modo da ricostruire le temperature dei fondali. L'analisi si è focalizzata sulle coste orientali e occidentali del Nord America, sulla base dei dati raccolti tra il 1993 e il 2019, e ha prodotto simulazioni con una risoluzione di 8 chilometri.
I risultati indicano che le ondate di calore marino sui fondali tendono a persistere più a lungo (anche mesi) e talvolta sono più intense di quelle osservate in superficie nella stessa località, con aumenti della temperatura compresi tra 0,5 e 3 gradi. Le ondate di calore più superficiali e quelle profonde tendono a essere sincrone nelle regioni in cui le acque sono più basse e si rimescolano meglio, mentre dove le acque sono più profonde le ondate di calore sui fondali possono avvenire anche senza che ci siano segnali evidenti in superficie. I pescatori rischiano dunque di percepire il fenomeno solo quando diventano visibili gli effetti sull'ecosistema marino e per questo, concludono i ricercatori, sarebbe necessario un sistema di monitoraggio a lungo termine.
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