(di Roberto Nardi)
Nel 1959, una decina d'anni dopo
la decisione di stabilirsi 'quadri e bagagli' a Venezia,
sistemando nel palazzo sul Canal Grande i Picasso, i surrealisti
e le opere del suo "protetto" Pollock, Peggy Guggenheim acquista
a New York il suo primo nucleo di oggetti d'arte non
occidentale, dall' Africa all'Oceania alle Americhe. "Dodici
fantastici oggetti" scrive nelle sue memorie; nucleo primario di
una "nuova" collezione, accanto e in sintonia con quella
dedicata alle massime espressioni delle avanguardie del '900,
che nel giro di poco meno di un decennio aumenta di numero.
Dal 15 febbraio al 14 giugno, 35 opere non occidentali
raccolte da Peggy saranno esposte nella mostra "Migrating
objects", nelle sale di Palazzo Venier dei Leoni.
A dare solo ascolto alle parole della collezionista-mecenate
riguardo alle ragioni dell'acquisto - "Non riuscii a comprare
niente di ciò che volevo, così mi dedicai a un altro campo" (Una
vita per l'arte, Rizzoli) - forse il team di esperti che ha
curato la mostra non avrebbe lavorato due anni prima di alzare
il velo su una esposizione solo apparentemente "di nicchia". Nel
porsi in relazione con oggetti che originariamente avevano
funzioni ben diverse da quelle di essere collezionate - maschere
tribali, sculture funebri, copricapo per cerimonie religiose e
tanto altro - forse in Peggy scattavano altre "molle". Sullo
sfondo da non escludere un gesto di ripicca verso l'ex marito,
l'artista surrealista Max Ernst, che aveva riempito di questi
artefatti la loro casa newyorkese negli anni '40 prima della
separazione, o le suggestioni di come questi oggetti erano
entrati negli studi degli artisti del suo cotè, che se ne erano
poi appropriati per i loro lavori - in primis Picasso
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