Migliorare la qualità del
personale, incentivare e premiare chi va in missione, potenziare
il legame fra formazione e reclutamento, avere contratti
uniformi per il personale dispiegato, e aumentare la
comunicazione fra istituzioni sui procedimenti giudiziari contro
chi commette reati mentre è in missione. Secondo uno studio
elaborato da un team di ricercatori della Scuola Superiore
Sant'Anna di Pisa, sono questi i punti principali sui quali
Stati membri e Ue devono lavorare per migliorare la qualità
delle missioni svolte nell'ambito della politica di sicurezza e
di difesa comune (Psdc). La ricerca, coordinata dal professor
Andrea de Guttry, è stata presentata a Bruxelles durante un
workshop organizzato dalla sottocommissione Sicurezza e difesa
del Parlamento europeo.
"Esiste un problema di comunicazione fra l'Ue e gli Stati membri
su come vengono perseguiti i reati commessi durante le
missioni", ma anche "una problematica relativa al reperimento
delle prove dei reati stessi, spesso commessi in zone difficili
del mondo", afferma il professor Alberto Di Martino, membro del
team di ricerca.
Attualmente le missioni Ue sono 16 e coinvolgono circa 7mila
persone: 10 sono le missioni civili (2.500 persone), 6 quelle
militari (4.500). "Nonostante alcuni progressi" fatti, "le
procedure per la selezione e il dispiegamento del personale
restano lente e complicate" spiega la dottoressa Annalisa Creta
del Sant'Anna. In questo senso, per l'Italia "è molto
importante" l'entrata in vigore il 31 dicembre 2016 delle
disposizioni sulla partecipazione alle missioni internazionali,
"perché permette di guardare più al lungo periodo". Dal 2003 al
2015, il nostro Paese ha inviato circa mille persone in missioni
Psdc fra civili e militari, e ha attualmente 50 civili
dispiegati sul campo.
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