(dell'inviata Alessandra Magliaro) (ANSA) - VENEZIA, 04 SET -
E' un cinema lontano da tutto, senza ansie, senza pressioni
"oggi siamo qui ma tra 48 ore siamo di nuovo lì sotto" dice il
regista Michelangelo Frammartino prendendo in prestito il
linguaggio del suo film Il Buco, oggi in concorso a Venezia 78,
secondo dei cinque italiani a debuttare in Sala Grande dopo E'
stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. "Il mio - spiega
all'ANSA - è un cinema carsico, sotterraneo. Fingo di essere a
mio agio qui a Venezia in realtà non lo sono, mi sento fuori da
questo e anche a sorpresa in concorso, pensavamo di andare
magari in altre sezioni". Frammartino, che ammette di essere "un
po' lentino" torna al cinema (il film, una produzione Doppio
Nodo Double Bind con Rai Cinema, uscirà nel 2022 con Lucky Red)
dopo 11 anni dalle Quattro volte, "nel mezzo un film non fatto,
nel 2015, un lutto da elaborare". Sul red carpet indossa tuta e
caschetto come tutta la delegazione guidata dai veterani
speleologi Beppe De Matteis, 86 anni, e Giulio Gècchele, 84, che
nel 1961 fecero l'impresa esplorando l'allora seconda (oggi è la
terza) grotta più profonda, l'Abisso del Bifurto in Calabria,
700 metri sottoterra. Con loro i non attori, i giovani
speleologi come Leonardo Zaccaro e vari altri, che hanno
interpretato il film, sei settimane nella cavità immensa
nell'entroterra calabrese del Pollino, arrivando a toccare quota
400 (più sei settimane sopra, oltre a preparazione, montaggio,
edizione). "ci spingeva - racconta con spirito intatto Gecchele
- l'idea di andare in luoghi in cui nessuno era mai andato. Fare
lo speleologo è in un certo senso una scuola: sei custode del
tuo compagno, sei disponibile, ti adatti come quei rari animali
che abitano le grotte. Oggi tutto si impara su internet ma
questa passione no e non sono molti i giovani che cominciano: è
faticoso, ti strusci nel fango, è pericoloso gli aspiranti
adepti via via sono sempre meno". Il Buco restituisce tutto
questo: "un film senza attori, senza dialoghi, senza musiche e
pure senza luce!", dice Frammartino raccontando come ha
presentato ai produttori il progetto. Un cinema in cui
documentario e finzione non sono due linguaggi alternativi: "il
confine? Ci sto ancora lavorando", risponde il regista che ha
cercato speleologi che avessero voglia di esplorare per il
cinema senza praticamente interpretare ma solo mettere in scena,
con la guida dei veterani, quello che fu l'impresa del '61 e di
cui neppure all'epoca si parlò tanto "se non raccontarla nel
nostro Gruppo - aggiunge Gecchele, all'epoca giovane della
sezione piemontese, tra le più note". Nel loro gruppo, il più
giovane aveva 18 anni, anche due donne ad una delle quali,
Carla, è legato un aneddoto che più è rimasto impresso a
Gecchele: "la marronata che tanto aspettavamo per alimentarci lì
sotto e che invece si era contaminata con la benzina, così la
lanciammo sulle pareti della grotta". Nel Buco Frammartino tenta
cinematograficamente un esperimento: fare un passo indietro
sull'umano, lasciando emergere suoni, sensazioni, connessioni,
dalla profondità della terra, "ridimensionando - spiega la
sceneggiatrice Giovanna Giuliani - gli esseri umani, la luce
anche è ridotta: c'è solo l'angolo illuminato dal caschetto.
Un'esperienza, la speleologia, che insegna anche a stare insieme
agli altri, una specie di servizio civile".
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