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Fotoreporter: 'Scatti Vajont mi cambiarono vita'

Fotoreporter: 'Scatti Vajont mi cambiarono vita'

Vittorio Russo per l'ANSA fu tra primi a raggiungere l'area del disastro

VENEZIA, 09 ottobre 2014, 18:04

Redazione ANSA

ANSACheck

di Rosanna Codino

VENEZIA - La tragedia ha il colore del fango e il silenzio del nulla che improvvisamente, in una sera d'autunno di 50 anni fa, cancella uomini e speranze. Il Vajont per Vittorio Russo, uno dei fotografi che per l'ANSA documentò tra i primi la catastrofe, con 600 foto fatte con la sua Leica e un solo obiettivo, è una ferita ancora aperta, lo 'scatto' che ha cambiato la sua vita.

All'epoca aveva 25 anni, lavorava come free lance per lo studio fotografico Ghedina di Cortina, a cui l'Agenzia faceva riferimento per l'area dolomitica. La sua storia, fino ad allora di studente universitario e fotografo dei vip in vacanza nelle Dolomiti, cambia con una telefonata che lo raggiunge prima dell'alba del 10 ottobre 1963. E la narra ora per la prima volta. La frana aveva riversato poche ore prima la sua colata di morte.

''E' successo un casino, non si capisce cosa sia accaduto a Longarone - gli dice al telefono un collaboratore dei Ghedina - ma da Cortina non riusciamo ad arrivare sul posto, è tutto bloccato. Vedi se ce la fai tu da Venezia''. Russo monta sulla sua Fiat 600 e arriva sino a Ponte nelle Alpi, dove erano stati istituiti i primi posti di blocco.

''Qui ho un primo colpo di fortuna - racconta - perchè non avevo documenti che attestassero il mio status di fotografo, a parte la borsa con la macchina e l'obiettivo, ma avevo un tesserino del Giornale d'Italia di Buenos Aires, e per questo sono stato caricato su una camionetta e portato più avanti''. Il mezzo lo fa scendere a Faè, frazione a sud di Longarone, e lui inizia a camminare a piedi. Al principio nota solo che l'asfalto della strada è rotto e contornato a destra da un acquitrino che prima non c'era. ''Il sole era alto, forse leggermente coperto - ricorda - ma attorno a me c'era un silenzio che non dimenticherò mai''. Muovendosi nel fango, nota i primi segni della frana: una fabbrica di faesite mezza sepolta nella melma, la ferrovia annodata e divelta, la monumentale Villa Protti rasa al suolo, la chiesetta di Pirago ridotta in macerie e graziata solo nel campanile, il cimitero sventrato con le bare fuoriuscite. Le tracce della morte lo aspettano poco oltre.

''La cosa che più mi impressionò - dice - è che i soccorritori lavoravano con le mani nude, senza dire una parola''. La prima foto è per un gruppo di militari che stanno operando attorno a quello che sembra un buco, una ferita nera e purulenta nel suolo. ''Ne hanno estratto fino alla vita il cadavere di un uomo di mezza età - ricorda - poi lentamente, con la riverenza che si deve solo alla morte, lo hanno strappato completamente al fango''. La desolazione del Vajont ha conservato nella sua memoria gli occhi disperati di una vecchia, accanto alle macerie della sua casa. ''Era di fianco a una cassapanca dove si intravvedevano delle cose piegate accuratamente nel cellophane - sottolinea, confessando che alcuni di quegli scatti sconvolgenti non sono mai stati diffusi per rimanere una esperienza 'privata', una sorta di eredità morale da trasmettere alla figlia - e ripeteva, quasi come una litania, piangendo e scuotendo la testa: è il corredo di mia nipote che si doveva sposare la settimana prossima e adesso lei è morta''.

Più in la' il lavoro metodico di chi cerca i cadaveri nella terra, sotto i rami e i detriti caduti a valle. ''Ogni tanto - spiega - si sentiva qualcuno spostarli e dire, gridando neppure troppo forte, 'soldato venga qui, ne ho trovato uno'''. La notte lo sorprende con 16 rotoli di pellicola fotografica in tasca assieme ai militari, con i quali condivide un giaciglio di fortuna, una coperta e il riparo della ruota di una camionetta. Quello immagini sono diventate patrimonio della memoria italiana grazie all'ennesimo gesto di cieca generosità collettiva di quei giorni. ''Mi sono fidato degli occupanti di una camionetta di soccorritori che stava andando a Belluno - conclude Russo, che da anni si è affermato come imprenditore nel mondo del turismo - e ho dato loro le pellicole dicendo di consegnarle subito allo studio Ghedina. Ho rischiato di perdere tutto il mio lavoro, ma non potevo fare altrimenti. Mi è andata bene''.

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

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