La Commissione di Vigilanza ha stabilito che la Rai debba inserire nel proprio statuto il limite massimo di 240mila euro agli stipendi del personale e degli amministratori. L'invito è contenuto in un parere approvato dalla bicamerale all'unanimità.
Fico, importante sì unanime a tetto, azienda s'attenga - "L'approvazione all'unanimità è un grande risultato. Non c'è nulla infatti che possa giustificare un regime speciale per la concessionaria pubblica. Ci auguriamo che la Rai adesso faccia la sua parte e si attenga al parere approvato dalla Commissione". E' quanto si legge in un post pubblicato dal presidente della Commissione di Vigilanza, Roberto Fico, su Facebook, subito dopo l'approvazione all'unanimità del parere allo statuto Rai, con l'invito ad introdurre il tetto agli stipendi di 240 mila euro.
"Allo stato attuale - ricorda Fico -, a causa dell'emissione di bond, la Rai può infatti sforare il tetto ai compensi che si applica a tutte le società pubbliche. Durante l'esame della riforma della governance Rai, avevo chiesto con forza di introdurre il limite dei 240 mila euro annui ma l'emendamento era stato respinto. Ho voluto riproporre questo principio in Commissione, oggi riunita per esprimere il parere sulle modifiche dello statuto della Rai".
Cassazione, Beha da risarcire, punito da sanzioni ingiuste - La 'regola' di Viale Mazzini di proibire ai suoi dipendenti di criticare pubblicamente la Rai, o di parlare all'esterno delle sue vicende 'interne', non può essere considerata una regola del "vivere civile" alla quale viene 'spontaneo' ispirarsi e pertanto la Tv di Stato, se vuole applicare le sanzioni a chi infrange la 'censura', deve dimostrare di avergli illustrato le circolari sul divieto di "esternare opinioni sulle politiche aziendali". Lo sottolinea la Cassazione confermando il diritto di Oliviero Beha ad essere risarcito dalla Rai con 20mila euro per le sanzioni illegittime inflittegli nel 2004 per aver esternato anche parlando con 'Striscia la notizia', testata concorrente. Ad avviso della Cassazione - sentenza 23081 depositata oggi - merita dunque conferma la decisione con la quale la Corte di Appello di Roma, nel 2012, aveva liquidato la somma al giornalista riconoscendo che aveva vissuto in Rai una condizione lavorativa "avversativa, frustrante e stressante" e che solo "la preparazione culturale e l'equilibrio psichico" dello stesso Beha, demansionato dall'incarico di vicedirettore di Rai Sport, "avevano impedito il prodursi di danni permanenti di entità maggiore del 3% (quantificata in tali limiti a titolo di danno biologico)". Per la Cassazione, "la frustrazione, il disagio, la mortificazione prodotti dal demansionamento e dalla illegittima irrogazione di sanzioni disciplinari, ossia la sofferenza soggettiva, devono comunque essere adeguatamente ristorati", anche se, nel caso di Beha, non si sono "tradotti, se non in minima parte, in esiti invalidanti permanenti". Senza successo, la difesa della Rai ha sostenuto che è sbagliato negare, come avrebbe fatto la sentenza di appello, "l'esistenza di un'area di comportamenti del lavoratore subordinato che, in quanto presidiati dalle regole di correttezza e buona fede, possono costituire oggetto di addebito disciplinare anche in assenza di una specifica predeterminazione nel codice disciplinare". Per gli 'ermellini', la Corte di Appello con giudizio "congruo ed esaustivo", ha rilevato che la Rai "avrebbe dovuto dimostrare che detta normativa interna era stata portata a conoscenza del lavoratore". Inoltre, nell'obbligo "di non esternare opinioni sulle politiche aziendali e di non rilasciare dichiarazioni su fatti interni all'azienda, non può essere ravvisato un comportamento contrario alle regole comunemente condivise del vivere civile, nè una condotta di astratto rilievo penale".
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