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Un Paese nel mirino

Un Paese nel mirino

27 marzo 2017, 18:44

Redazione ANSA

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Il cuore turistico di Istanbul e il centro politico di Ankara, le zone più calde al confine con la Siria e quelle incendiate dal conflitto curdo nel sud-est. Una dopo l’altra, le bombe non hanno risparmiato praticamente nessuna regione della Turchia. Una raffica di attentati che nell’ultimo anno e mezzo ha demolito l’immagine di Paese sicuro per i turisti e prospero per gli investitori che il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva saputo cucirle addosso. Da avanguardia della convivenza tra Islam e democrazia e appiglio sicuro nel caos del Medio Oriente, la Turchia è diventata l’epicentro di un nuovo, forse più grande terremoto geopolitico alle porte dell’Europa.

La sicurezza raggiunta da Ankara, che aveva tenuto lontano il terrorismo di radice islamista e maturato una tregua con i ribelli curdi del Pkk, si è sgretolata con la velocità di una frana. L’inizio di questo caos multiforme si individua plasticamente in una piazza di Diyarbakir piena di militanti del partito filo-curdo Hdp per un comizio del suo leader Selahattin Demirtas, a soli 2 giorni dalle elezioni che per la prima volta dal 2002 priveranno l’Akp di Erdogan della maggioranza assoluta in Parlamento: è il 5 giugno 2015. Un ordigno scoppia a poca distanza dallo stesso Demirtas, facendo 5 vittime. Per il governo, è stato l’Isis. Da allora, la Turchia non è più riuscita a fermare la scia di sangue, tra attacchi jihadisti – quasi mai rivendicati – e terrorismo dei falchi curdi del Tak. Sempre peggio, fino alla terribile strage di Capodanno al nightclub ‘Reina’ di Istanbul. Si calcola che gli attentati terroristici dell’ultimo anno e mezzo abbiano provocato almeno 538 morti e oltre 2 mila feriti.

Per il turismo, che nel 2014 aveva sfiorato il record di 37 milioni di visitatori dall’estero, gli effetti sono stati disastrosi. Negli ultimi 18 mesi, in quasi esatta coincidenza con l’inizio degli attentati, gli arrivi dall’estero sono calati senza sosta, con picchi negativi tra giugno e luglio scorsi, anche per lo shock del fallito golpe. Alla fine del 2016, la Turchia ha dovuto contare 11 milioni di visitatori stranieri in meno rispetto all’anno precedente (-30%). La ‘cool Istanbul’, verso cui accorrevano creativi da tutto il mondo, si è trasformata in una metropoli in costante allerta. Le spiagge di Antalya, complice anche la crisi con la Russia – ora in parte superata – si sono svuotate. Della ‘Turchia felix’, rimane per adesso solo il ricordo.

Per uno dei settori chiave dell’economia turca, fiore all’occhiello della strategia di attrazione dei capitali esteri nel primo decennio di Erdogan al potere, è stato un danno pesantissimo. Nel 2015, il turismo contribuiva al Pil per il 4,3 % del totale, ma molto maggiore era il suo peso in termini relativi. Il contributo nel frenare il deficit delle partite correnti, tallone d’Achille di Ankara, era dell’80%: la valuta straniera dei viaggiatori aiutava a compensare (in parte) quella spesa per acquistare le risorse energetiche che tanto mancano alla Turchia. Un milione erano i posti di lavoro calcolati, molti di più quelli dell’indotto semi-ufficiale, tra ambulanti e guide improvvisate. Dall’avvio della crisi, se ne sono persi decine di migliaia.

Un contraccolpo che non ha risparmiato neppure la Turkish Airlines, tra le pochissime vere compagnie di bandiera rimaste al mondo. Riccamente foraggiata dai capitali statali, negli ultimi anni era riuscita a rovesciare l’immagine scalcinata che l’accompagnava in passato: la sigla Thy, si ironizzava all’estero, stava in realtà per ‘They hate you’, ti odiano. Poi, disservizi e ritardi sono diventati un ricordo: dal 2011 è stata premiata ininterrottamente come ‘Migliore compagnia d’Europa’, e i suoi volti, a suon di contratti milionari, sono diventati quelli di Kobe Bryant e Leo Messi, o di Morgan Freeman durante il costosissimo intervallo del Super Bowl. Eppure, complice anche l’attacco portato a fine giugno contro il suo hub, l’aeroporto Ataturk di Istanbul, il 2016 è stato per la Turkish il primo anno in perdita dal 2000. Un altro duro colpo agli interessi strategici di Erdogan, che l’ha eletta ad avamposto mobile della sua influenza oltreconfine, dall’Africa all’Asia centrale.

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