Più della Cina, peggio di Egitto e Iran. La Turchia è oggi la più grande prigione per giornalisti del mondo. Lo dicono tutti gli osservatori internazionali, dal Committee to Protect Journalists a Reporters sans Frontières. Lo confermano quelli locali. Alla fine di marzo, quasi 150 dietro le sbarre. Ma i numeri cambiano velocemente, di solito aumentando. Per il governo, però, nessuno è in carcere per la sua attività di reporter, ma solo per “terrorismo”, che sia di matrice ‘gulenista’ o curda. Poco conta, per Ankara, che nella lista ci siano giornalisti veterani ed editorialisti apprezzati in tutto il mondo, da Ahmet Altan a Kadri Gursel. Secondo Erdogan, “sono tutti ladri, pedofili e terroristi”.
Da febbraio, in galera c’è anche il corrispondente della Welt con doppio passaporto turco-tedesco, Deniz Yucel. Manco a dirlo, è accusato di “terrorismo”. Erdogan l’ha definito una “spia” di Berlino. Che però si chiede come possa dirlo, visto che il processo a suo carico deve ancora iniziare. Un rapporto sempre più difficile, quello con la Germania. Lì è riparato Can Dundar, ex direttore del quotidiano Cumhuriyet, baluardo dell’intellighenzia laica. Ricercato da Ankara, a Berlino è stato accolto persino dal capo dello Stato. Erdogan aveva promesso che avrebbe pagato un “caro prezzo” per lo scoop del maggio 2015 sul passaggio di armi in Siria su camion dei servizi segreti turchi. Dopo più di 3 mese in prigione e una condanna in primo grado a 5 anni per rivelazione di segreto di stato, ha lasciato la Turchia alla vigilia del golpe. Ora, lo cercano anche per quello.
Poi, ci sono le altre ombre della libertà di stampa: almeno 170 media chiusi dopo il golpe, centinaia di accrediti cancellati e diversi reporter stranieri cacciati, un clima di auto-censura diffusa anche tra molti giornali un tempo considerati di opposizione. E, naturalmente, l’impero mediatico vicino al presidente Erdogan.
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