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Dopo il golpe

Dopo il golpe

27 marzo 2017, 18:45

Redazione ANSA

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Sono da poco passate le 10 di un venerdì sera d’estate quando alcuni carrarmati bloccano il Ponte sul Bosforo a Istanbul. Prima, qualcuno impreca per il traffico, già ingolfato come sempre, che d’improvviso si ferma. Poi si comincia a pensarci su, a intuire, a twittare: un’operazione antiterrorismo, forse. Solo un paio di settimane prima, per dire, c’era stato il clamoroso attacco allo scalo Ataturk. Ma l’ipotesi che si rivelerà giusta, quella del tentativo di colpo di stato, non tarderà troppo. Perché non è poi così incredibile, da queste parti. Con l’idea del golpe, e del liberarsi dalla minaccia dei golpe, i turchi sono cresciuti ed Erdogan ha costruito una fetta importante della sua carriera politica, quell’emancipazione dalla tutela militare che nei suoi primi anni al governo sedusse anche molti laici e liberali. Ma l’ultima volta dei carrarmati in città, ad Ankara nel 1997, non si esplose nemmeno un colpo. Il 15 luglio 2016, quando ormai non sembra più tempo di colpi di stato, invece si spara e si bombarda. Gli F-16 che volano basso e i tank all’aeroporto, i soldati che aprono il fuoco sulla folla e la gente che scende in strada dopo l’appello di Erdogan: è uno shock. Alla fine, si conteranno 248 vittime riconosciute, i ‘martiri’, e 2.193 feriti. Sui golpisti morti si evitano troppi calcoli, spesso i parenti non vengono neppure a reclamarne i corpi. Erdogan sopravvive, sfuggendo in tempo al commando che voleva ucciderlo, e comincia a riscrivere la storia della Turchia.


Quello che succede dopo è ancora cronaca dell’oggi. Le purghe dei seguaci veri o presunti di Fethullah Gulen, che non sembrano finire mai. Gli arresti e i maxi-processi, il clima di paura e sospetto, mentre continuano a emergere dettagli di quelle ore fatali e ci si interroga su chi sapeva o non poteva non sapere, sulle incongruenze e le responsabilità. Della colpevolezza di Gulen, sodale chiave dell’ascesa al potere di Erdogan, prima di diventarne il nemico numero 1, fuori dalla Turchia continuano a dubitare.
Gli Stati Uniti, per esempio, che lo ospitano da un ventennio e insistono nel negarne l’estradizione. O la Germania, che con i suoi 007 dichiara di non avere certezze sugli autori del putsch. Verità al momento parallele, destinate forse a non incontrarsi mai.

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