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L'uomo che si è calato nell'inferno

L'uomo che si è calato nell'inferno

14 aprile 2016, 12:17

Redazione ANSA

ANSACheck

Chernobyl - RIPRODUZIONE RISERVATA

Chernobyl - RIPRODUZIONE RISERVATA
Chernobyl - RIPRODUZIONE RISERVATA

Con i suoi occhi ha visto da vicino l’inferno nucleare, con la telecamera lo ha immortalato. Sergey Koshelev è stato tra i pochi a entrare all’interno del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, esploso nella notte del 26 aprile del 1986. Lo incontriamo nella sua casa, nelle campagne che circondano Slavutich, città fondata dopo il disastro per ospitare gli sfollati di Prjpyat, il centro abitato all’epoca più vicino all’impianto nucleare.

Sergey è molto timido, porta occhiali scuri che sembrano proteggerlo dal mondo esterno; accarezza i suoi cani e il suo gatto nero e lentamente, dopo aver preso un po’ di confidenza con noi, inizia a raccontare.  Quest’uomo ha sfiorato più volte il pericolo estremo, quello nucleare, che non ha odore né colore. Una minaccia subdola e letale che ha lasciato i suoi segni nelle riprese fatte da Sergey. Si presenta sotto forma di puntini bianchi e stringhe gialle impressi sulla pellicola, accompagnati dal ticchettio del dosimetro che si fa sempre più veloce quanto più è alto il livello delle radiazioni. “Nel 1986 stavo finendo il servizio militare nel corpo degli ingegneri a Korolev, vicino Mosca. Era un momento strano della mia vita, un periodo di passaggio. Avevo appena divorziato e così, quando chiesero dei volontari per andare a Chernobyl, decisi di andare. Eravamo io e un altro ragazzo. Lui partì qualche mese prima e una volta lì mi rassicurò dicendomi che ormai era tutto tranquillo e che la paga era buona. Così feci le valigie e via.”

Sergey non sapeva che la sua vita sarebbe stata per sempre legata a Chernobyl, dove arrivò nel maggio del 1987. “Già un anno dopo, il collega che mi aveva preceduto era morto. Si era impiccato, lasciando scritte poche parole su un foglio di carta: «Non posso più sopportarlo»”. Quel giovane non riusciva più a vivere con i fortissimi mal di testa che lo accompagnavano ininterrottamente ormai da quando, per la prima volta, aveva messo i piedi sul tetto del reattore. Nonostante avesse spesso lamentato ai medici il suo malessere, nessuno lo aveva ascoltato. “La sua salute – secondo i dottori – era perfetta. Era infatti proibito anche solo parlare di patologie associate a Chernobyl”. Questo però non fermò Sergey che, anzi, arrivò alla centrale vestito come tutti i giorni. Non indossava tute protettive né guanti; non sapeva dove andare né quale sarebbe stata la sua mansione.

Nel caos dettato dall’emergenza, in mezzo a uomini arrivati da tutta l’Unione Sovietica, regnava l’imprevisto e l’imprevedibile. Così Sergey fu catapultato in un settore per lui sconosciuto, ma sicuramente affascinante, diventando video-operatore. Documentare quello che l’atomo aveva provocato: era questo il suo compito e per farlo sarebbe dovuto entrare nel reattore esploso.  Nel 1988 fu mandato, per la prima volta, nel cuore di quel luogo che ha cambiato per sempre la vita di milioni di persone. Fu uno dei primi, insieme al collega Alexey Nenagliadov, a riprendere e fotografare l’unità 4. “Ricordo il panico, la prima volta che entrai. Tutto il mio corpo iniziò a tremare, sentivo un caldo incredibile venire dal pavimento. Come se uscisse dall’inferno. Allora mi dissero: «Hai 200 Röntgen all’ora sotto ai tuoi piedi»”. Dosi altissime di radiazioni considerando che, in base alle tabelle internazionali, assorbire 250 Röntgen è sufficiente a uccidere, nel 50 per cento dei casi, una persona.

“Lì dentro non c’era spazio per le emozioni, dovevi solo fare il tuo lavoro nel minor tempo possibile. E dovevi farlo spesso anche gattonando, in mezzo al corium – il fluido nucleare fuoriscuscito dal nucleo, ora solidificato – che travolse come lava tutto quello che c’era nell’unità 4”. Un lavoro delicato che Sergey ha fatto per anni, mentre vedeva morire – uno dopo l’altro – i suoi colleghi. Tra questi anche il suo amico Alexey Nenagliadov, ucciso da radionucludi come cesio 137, stronzio 90 e plutonio. La paura più grande di Sergey però si materializzò quando, durante una delle sue missioni, restò solo dentro al reattore. “Mi ero fermato per fare delle riprese a delle stalattiti che si erano formate con la solidificazione del fluido nucleare; così non mi sono accorto che i miei colleghi si erano allontanati. A un certo punto si fece tutto buio perché si era improvvisamente spenta la batteria della telecamera. Ancora oggi non so come ho fatto a trovare la via d'uscita, mi muovevo a fatica tra i detriti, cadevo, sbattevo la testa... Sono stati degli attimi terrificanti”.

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

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