"Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele venire", diceva Anna Magnani a un truccatore che voleva 'ringiovanire' il suo viso. Ma quante donne oggi hanno questo atteggiamento di serenità nei confronti dei cambiamenti fisici che la vecchiaia comporta? Forse non molte, ma non solo per una questione di mera vanità. Il problema sta infatti negli stereotipi di genere che le donne subiscono quando vanno avanti con l'età. A spiegarlo è la filosofa Francesca Rigotti nell'interessante saggio De senectute, edito da Einaudi. L'autrice ritiene che, sebbene non ci siano di fatto differenze tra maschi e femmine perché tutti indistintamente diventiamo anziani in una certa fase della vita, si possa davvero parlare di una 'vecchiaia delle donne': queste ultime infatti devono sopportare non solo gli aspetti comuni a ogni essere umano nella senilità, come per esempio la solitudine, l'indebolimento delle forze e della salute, lo scemare della memoria e il bisogno di farsi aiutare dagli altri, ma qualcosa in più. Le donne vecchie subiscono innanzitutto l'onta della menopausa e della conseguente sterilità, che diventano sinonimi di inutilità, ma anche lo stigma del decadimento fisico che rende brutte, non più desiderabili. Frasi come "è ancora una bella donna" sono infatti molto presenti nel nostro quotidiano, mentre è convinzione comune che gli uomini con l'età possano acquistare fascino e interesse. Già nell'antica Grecia le donne anziane potevano fare le levatrici, ma continuamente venivano disprezzate per la bellezza ormai sfiorita del loro corpo. Attraverso riferimenti mitologici, letterari, filosofici (a cominciare dal titolo del libro, che riprende l'opera omonima di Cicerone) e consuetudini sociali, Rigotti mostra quali sono le radici comuni alla base degli stereotipi sulle donne che affrontano la vecchiaia. L'autrice delinea un quadro non proprio esaltante per la figura femminile, sottolineando le caratteristiche di una società come la nostra, afflitta da un giovanilismo imperante che colpisce sia uomini che donne, ma che con le donne è più crudele. Notando quanto in realtà si parli sempre di vecchiaia al maschile e pochissimo al femminile, Rigotti invita a uscire dai pregiudizi, sia da quelli cattivi (la donna anziana strega e bisbetica) che da quelli buoni (la "vecchina caritatevole") che ancora da quelli "scientifici", che vogliono le nonne sempre pronte ad accudire figli e nipoti. "L'idea che le donne vecchie siano esseri pienamente umani e che le loro siano esistenze degne d'interesse è un'opinione non scontata come potrebbe sembrare", si legge, "eppure le loro vite, come del resto le vite degli uomini anziani, possono essere piene e creative". Ecco allora l'invito a non stare "in attesa" (del medico, di ciò che fanno i figli, della morte stessa), e a non sottovalutare l'importanza di dedicarsi all'amicizia, di concedersi l'amore, di prendersi del tempo per valorizzare il proprio sapere e la propria esperienza, di essere creative. In poche parole di vivere pienamente, sfruttando tutto il bello della vecchiaia.
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