JEAN RENOIR, ''RENOIR, MIO PADRE'' (ADELPHI, pp. 434 - euro 22,00 - Traduzione di Roberto Ortolani).
Un libro fascinoso e intenso su una delle figure più interessanti della pittura impressionista e sulla Parigi e la Francia di quegli anni, che dobbiamo, come ci dice l'autore stesso, il figlio anche lui artista illustre, regista cinematografico, a ''un bravo tiratore bavarese... cui sono riConoscente'', che nel 1915 lo costrinse a tornare a casa e a riAvvicinarsi e riscoprire il padre da adulto, così da potercelo raccontare poi in queste pagine.
Una sorta di diario partecipe e per certi versi incantato che, raccontandoci il quotidiano e l'eccezionale, insegue il mistero dell'arte e il senso della genialità creativa, non arrivando mai a rivelarlo con una chiara definizione, ma facendolo emergere con poesia da mille notazioni umane e di vita di un vecchio che è vissuto sempre in gran semplicità solo per dipingere, diventando parte essenziale della storia della moderna cultura europea.
Il figlio, ferito, si muove a malapena con le stampelle, il padre è costretto da tempo su una carrozzella, quindi hanno tutto il tempo di parlare, uno della sua esperienza miltare, l'altro rievocando tutta una vita, e soprattutto una Parigi pre modernità, illuminata ad olio, senza acqua corrente, ma già con artisti poveri sulla collina di Montmartre e pronti a divertirsi e ballare al Moulin de la Galette, come testimonia un celebre quadro del trentacinquenne Pierre-Auguste del 1876. Ed è questo mondo ricordato con la memoria e il vissuto del gran pittore e raccontato con l'occhio professionale e partecipe di Jean che più coinvolge. La povertà come condizione naturale, l'impegno nel dipingere sempre, gli amici artisti e letterati, le prime mostre, le feroci e ironiche critiche dei pittori e studiosi accademici che deridevano la pittura ''impressionista'', i conoscenti e le persone importanti. ''Quando penso che avrei potuto nascere da una famiglia di intellettuali! Mi ci sarebbero voluti anni per sbarazzarmi di tutte le loro idee e vedere le cose come stanno'', dice al figlio, ricordandogli che i grandi sanno guardare le cose e capire, sanno muoversi dando colpi di timone personali, ma facendosi portare dalla corrente dei tempi nuovi, come un turacciolo. E così appare illuminante l'ultima sua frase, pronunciata in punto di morte nel 1919: ''Credo di cominciare a capirci qualcosa''. E se Renoir girò tutta la vita senza dare alcuna importanza all'abito, con i suoi camicioni da pittore, tanto da trovarsi in viaggio più a suo agio in treni di terza classe che guardato con sospetto dai signori della prima, l'amico Claude Monet teneva invece moltissimo all'aspetto e a un'eleganza raffinata, da dandy. Con Maupassant si davano reciprocamente del ''pazzo'' e se questi del pittore diceva ''vede tutto rosa'', l'altro dello scrittore diceva ''vede tutto nero'', mentre si divertiva a scandalizzare Zola, che mal sopporta. Ma gli episodi, gli aneddoti, le notazioni e i pensieri in queste pagine sono infiniti, con sempre la presenza di una tela, del cavalletto, dei colori e quando un medico riesce a farlo rialzare a fatica dalla sedia a rotelle, rinuncia replicando ''Questo prende tutta la mia volontà e non me ne resterebbe più per dipingere''. E il figlio Jean quindi si dice ''consapevole che quello che lui faceva ... era esattamente quello per cui era stato creato''.
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