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Branzi, il mio 'giro dell'occhio'

Branzi, il mio 'giro dell'occhio'

Cinquant'anni di sguardi in quasi un'autobiografia

ROMA, 04 gennaio 2016, 11:48

Mauretta Capuano

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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PIERGIORGIO BRANZI, IL GIRO DELL'OCCHIO' (CONTRASTO, PP 237, EURO 35,00) Una stanza spoglia, con un divano alla parete, una foto appesa al muro e una tenda leggera che si muove evocando una presenza assenza. E' 'Casa di Pier Paolo Pasolini, Casarsa', la foto che Piergiorgio Branzi scattò nel 1995, oggi una delle più amate dall'autore. Pubblicata nel libro 'Il giro dell'occhio' (Contrasto) è l'essenza di quell'attenzione per la fotografia intesa come "espressione di comunicazione cosciente" che ha sempre perseguito Branzi.
    Immagini, memorie, ricordi raccontano in questo libro, che diventa quasi una autobiografia, cinquant'anni di sguardi sul mondo di un artista che ha sperimentato le strade della fotografia, della pittura, dell'incisione, per poi dedicarsi al giornalismo televisivo. Corrispondente della prima sede Rai a Mosca, dove gli propose di andare l'allora direttore del Telegiornale Enzo Biagi, Branzi è stato poi a Parigi fino al rientro a Roma nel 1969 come commentatore del telegiornale e inviato speciale. La fotografia, sacrificata per un periodo, è rimasta sempre il suo primo amore come dimostra l'apertura al digitale degli ultimi anni documentata nella sezione che chiude il libro, dedicata a 'Le forme'. "Il digitale - dice all'ANSA Branzi - mi ha permesso il macro che non avevo mai usato".
    "Tra tutti gli strumenti usati la fotografia è stato quello privilegiato, perché mi ha permesso di leggere con maggiore attenzione critica e più cosciente empatia le società e i singoli personaggi che ho avuto la ventura incontrare e fotografare" spiega l'autore. Certo, l'atmosfera in cui oggi viviamo è l'opposto di quell'attenzione e approfondimento di cui parla Branzi. "Valanghe di larve di immagini che non vengono stampate e si perdono nel nulla, si dimenticano. Viviamo nell'epoca della bulimia, della grande diffusione delle immagini ma della perdita dell'attenzione a leggerle" dice Branzi, fiorentino, nato a Signa nel 1928, figlio del fondatore della tutt'ora attiva Libreria Editrice Fiorentina, attorno a cui si raccoglievano Papini, Turoldo e Milani, che venne folgorato sulla strada della fotografia dopo aver visto nel 1952 una mostra di Cartier-Bresson a Palazzo Strozzi. Amico di Mario Giacomelli, Branzi, convinto che "fotografare è disegnare' dice anche che "la fotografia che vuol comunicare qualcosa ha ancora un valore". Ma, se è vero che la disattenzione totale verso l'immagine come tipo di messaggio, l'incapacità di riconoscere l'autore di una foto, porta alla "dispersione dei rapporti tra individui", è però sbagliato lasciarsi andare a proiezioni apocalittiche. "Questo secolo è finito e i parametri non possono che cambiare. Il digitale permette qualcosa di diverso, ma non lo sappiamo ancora gestire, anche perché dovremmo intervenire personalmente. Siamo davanti ad un cambiamento epocale in cui non sono più gli stessi gli strumenti, gli obiettivi. C'è molta elettricità creativa" dice Branzi. "Ogni abbandono - aggiunge - è per un altro amore. C'è sempre una tensione. Le pause, le soste sono utili. Ci vuole un momento di riflessione. Ho cercato di fare foto consapevoli, di studiare il carattere della gente, le situazioni economiche". E soprattutto Branzi ha adeguato il suo occhio a diverse realtà come si vede nelle foto dedicate a Mosca, Parigi, al Mediterraneo, a Chiaroscuro toscano e alla scoperta dell'Italia.
   
   

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