ELENA PAPADIA, 'DI PADRE IN FIGLIO. LA GENERAZIONE DEL 1915' (Il Mulino, pp.208 - 19,00 euro). Il 24 maggio 1915. A un mese dal Patto di Londra l'Italia entra ufficialmente nel primo conflitto mondiale, con la dichiarazione di guerra all'Austria. Lungo le Alpi e l'Isonzo, migliaia di ragazzi sono pronti a combattere e altrettanti saranno chiamati alle armi nei mesi successivi. Molti destinati a non tornare mai a casa. Ma chi erano quei giovani italiani, pronti a sacrificare la propria vita per la patria, spesso già prima di aver ricevuto la cartolina del precetto? A raccontarlo è Elena Papadia, ricercatrice di Storia contemporanea all'Università di Roma La Sapienza e autrice del saggio ''Di padre in figlio. La generazione del 1915''. Quella che chiamiamo ''generazione'' del 1915, precisa subito la Papadia, è esistita, ''indica coloro che condivisero l'esperienza della guerra dopo averla invocata''.
Non gli intellettuali, che inneggiavano alla causa e a imbracciare le armi dalle colonne delle riviste delle avanguardie, ma le migliaia di giovani che manifestarono in favore dell'intervento e che poi realmente combatterono al fronte, spesso in prima linea come ufficiali di complemento, mostrando una ferrea capacità di sacrificio. Ed è di questi che il saggio traccia un profilo, muovendosi tra pubblico e privato, seguendo gli avvenimenti della Storia e cercando di capire non tanto le componenti politiche, quanto quelle culturali, psicologiche, familiari. Chi erano dunque i giovani interventisti della prima guerra mondiale? Cosa leggevano? Che rapporto avevano con i loro padri? ''Per lo più - risponde la Papadia nel libro - si trattava, in Italia come altrove, dei figli della borghesia colta'': studenti e universitari, figli di un'èlite che ''si sentiva tale'' non tanto per possesso ma per cultura, quindi anche ''la più sensibile all'appello dell'onore e della patria''. Ragazzi allevati con un'educazione alla responsabilità e al senso del dovere, nutriti con i racconti da epopea epica del Risorgimento e con il mito dei giovani martiri Garibaldini. ''Un vero governo dei morti sui vivi'', lo definisce la Papadia, per una ''terza generazione di patrioti'' che sente la chiamata a portare a termine il disegno, ancora incompiuto, di una patria unita. A scendere in campo, quasi come per un credo religioso. A spingerli è la questione delle terre irredente, ma c'è anche il rifiuto della generazione dei padri, segnata dalla corruzione dell'età giolittiana. Forse confondendo l'Arte con la vita, esplode così la carica giovanilistica accumulata negli anni, quando le avanguardie artistiche e letterarie avevano messo sotto accusa le salde certezze del positivismo. Paradossalmente, i padri, ''intenti fino a quel momento a irrobustire il carattere, la volontà e il senso di devozione alla patria, si trovarono invece a freddare ardori, a consigliar prudenza, ma impotenti ormai e resi timidi dalla consapevolezza di una contraddizione che i loro figli non ebbero difficoltà a dimostrare''.
La prima guerra mondiale, in verità, molto poco ebbe di eroico o molti pochi eroi riuscì a celebrare. Fu una guerra di macchine, più che di animi valorosi. Di morti nel fango, più che di duelli di spada. Eppure, anche quando i cadaveri cominciarono a tornare a casa o i feriti riportarono i racconti di quei giorni bui, le ondate di volontari non si fermarono. A sancire, che non partire, non mettere in gioco la propria vita per la patria, sarebbe stato un disonore peggiore persino della morte.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA