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Il Kitsch, molto più del cattivo gusto

Il Kitsch, molto più del cattivo gusto

La storia di una delle categorie estetiche più sfuggenti

ROMA, 14 ottobre 2014, 11:43

Marzia Apice

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Il Kitsch, Andrea Mecacci - RIPRODUZIONE RISERVATA

Il Kitsch, Andrea Mecacci - RIPRODUZIONE RISERVATA
Il Kitsch, Andrea Mecacci - RIPRODUZIONE RISERVATA

ANDREA MECACCI, ''Il Kitsch'' (il Mulino, pp.166, euro 12,50). C'è chi lo chiama cattivo gusto, chi contraffazione, chi ancora volgarità. Il kitsch è famosissimo, e molti di noi puntano il dito verso qualunque cosa - oggetto o atteggiamento che sia - possa rappresentarlo.
    Questione banale, quindi. Tutt'altro, perché il kitsch, così pregnante eppure così evanescente, ha fatto venire il mal di testa a non pochi filosofi e intellettuali che hanno osato affrontarlo nelle loro disamine. Lo studioso Andrea Mecacci, nel saggio ''Il kitsch'' (il Mulino), prova a spiegarne non solo le origini e il significato, ma soprattutto le innumerevoli derive.
    Sono tanti gli esempi che l'autore fa per indicarci la strada giusta affinché ognuno di noi possa riconoscere il kitsch (e, inesorabilmente, riconoscersi in esso): i biglietti di auguri di San Valentino, gli angioletti, i nani da giardino, le statuette di Padre Pio, Disneyland, le frasi di circostanza, le melensaggini e i luoghi comuni e, ovviamente, ogni forma di souvenir. Ma l'elenco è molto lungo e accoglie anche ''ospiti'' illustri, come i castelli di Ludwig II di Baviera che, caoticamente, mescolano la magnificenza di forme e stili diversi per ottenere una totale ''estetica della contraffazione''; e ancora, le fantasie e il sentimentalismo di Emma Bovary descritte mirabilmente da Flaubert, fino ad arrivare all'evocazione del dolore più puro, con l'immagine della bambina col cappottino rosso che emerge nel bianco e nero del film ''Schindler's List'' di Spielberg. La riflessione inizia nel primo Novecento, quando il kitsch viene analizzato come un problema etico che non soltanto mina la produzione artistica (Hermann Broch lo definisce il ''male nell'arte''), ma determina la bassezza morale del soggetto piccolo-borghese. La seconda fase affronta invece il kitsch in relazione all'industria culturale: qui esso diviene sinonimo del gusto della massa, che ama il banale e il sentimento preconfezionato e rifiuta ogni complessità (un consumo culturale che promette al pubblico una falsa liberazione, e che per questo, dice Adorno, è una ''parodia della catarsi''). Infine la dimensione della contemporaneità, in cui il kitsch si fonde nel postmoderno: in un'epoca in cui il divario tra arte e pseudo arte, vero e falso, gusto e cattivo gusto perde la propria incisività, il kitsch arriva a proiettarsi nella cultura pop, dando vita a pratiche inedite, come il camp e il trash. Sebbene il saggio non appaia destinato al lettore medio, quanto piuttosto a un pubblico qualificato - o dotato di almeno qualche rudimento nella materia - tuttavia va riconosciuto a Mecacci un grande sforzo di sintesi nel cercare di delineare in modo chiaro i contorni di questa categoria storica e concettuale di certo non facilmente definibile. Tra citazioni colte, teorie filosofiche e brani tratti da opere e romanzi di grandi autori, il libro offre un excursus dettagliato e a tratti accattivante per fare luce sul kitsch.
    Perché, da quando ha fatto la sua comparsa, esso si è dimostrato da un lato sfuggevole, dall'altro in continua evoluzione, andando di pari passo con i mutamenti della società. La conclusione è che il kitsch, lungi dall'essere un ''problema'' di facile risoluzione, non sembra proprio avere alcuna intenzione di abbandonare le nostre vite. Con buona pace dei più snob, la sua lunga storia (e basta guardarsi intorno) è destinata a vivere ancora per molto, molto tempo.
   

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