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Le detenute di Rebibbia si raccontano in 'Salvate dai pesci'

Le detenute di Rebibbia si raccontano in 'Salvate dai pesci'

I loro pensieri, le speranze, il dolore raccolti da Ri-Scatti

ROMA, 15 aprile 2024, 19:35

Redazione ANSA

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- RIPRODUZIONE RISERVATA

SALVATE DAI PESCI. RACCONTI DELLE DETENUTE DI REBIBBIA, A CURA DI MAURO CORSO (CASTELVECCHI, PP. 114, EURO 15). Bisogna avvicinarsi a 'Salvate dai pesci' in punta di piedi, come si fa con le cose delicate, con quelle che sussurrano e bisogna tendere l'orecchio per ascoltarle. Perché ricevere le confidenze, a volte dolorose, di chi si trova ristretto nella propria libertà è un dono. E va trattato come tale.
    'Salvate dai pesci' è composto dai pensieri di tante donne detenute nella sezione femminile del carcere di Rebibbia che hanno partecipato a un laboratorio dell'Associazione Ri-Scatti.
    Alla fine del libro i loro nomi suonano familiari, così come le loro paure, le speranze, i sogni a occhi aperti perché la vita nel carcere è lenta e le ore si dilatano. Ma c'è anche la consapevolezza di aver commesso errori.
    È qui, quando si danno delle colpe, che Floriselda, Maria, Alessandra, Simona, Giovanna tornano bambine e chiedono scusa ai loro genitori. E poi ai figli, a cui sono legate in modo straziante. Alcune di loro sanno che non li rivedranno più e augurano loro di crescere nella giustizia, amati, eppure cullano il pensiero di incontrarli, magari prima di morire. Solo per sapere che stanno bene, per dire ancora una volta loro che nemmeno per un minuto hanno smesso di pensarli. Come Regina, che non riesce nemmeno a dirla questa mancanza e quindi decide di tormentarsi le mani. Come Alessandra, che parla alla mamma: "Molte volte non ho saputo essere all'altezza delle cose che mi avevi insegnato. Avevo altro da fare, soprattutto farmi del male" Il sole, il mare, il cielo, i colori, la natura sono le cose che in questi orizzonti ristretti mancano di più. E le finestre che, in una ipotetica casa dei sogni, dovranno esser tantissime.
    Sembrano cose materiali, ma lì, nelle celle, sono bisogni. E poi c'è soprattutto la speranza, perché bisogna pur sperare e non sprofondare nell'angoscia e nella depressione. Tutti i bisogni, dietro le sbarre, vengono amplificati. I messaggi, il cibo, le chiacchiere, i laboratori. Tutto. Perché il carcere, racconta Maida, è un piccolo mondo in miniatura: piccolo in senso materiale, immenso emotivamente.
    "Non voglio una casa, magari per un mese. Non vorrei più avere guai", dice una di loro. Dentro il libro c'è tanta poesia, come quella bellissima, inconsapevole di Floriselda: "Vorrei dare un urlo di eterno paradiso".
   

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