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Mia Couto, l'inedito Quelli che muoino

Mia Couto, l'inedito Quelli che muoino

Scritto per il Festival Internazionale di Roma 'Letterature'

15 giugno 2015, 16:26

Mia Couto

ANSACheck

Locandina Letterature 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA

Locandina Letterature 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA
Locandina Letterature 2015 - RIPRODUZIONE RISERVATA

Avevo sette anni quando vidi piangere mio padre per la prima volta. Aveva appena ricevuto, in Mozambico, una lettera in cui gli comunicavano che suo padre era morto in Portogallo. I miei genitori, ancora in giovane età, erano stati costretti a esiliarsi in Africa. Non avevamo mai conosciuto i parenti che vivevano in Portogallo. Ma in verità il nonno era sempre vissuto in casa nostra. Era presente attraverso le storie raccontate dai miei genitori. Seduti al capezzale del nostro letto, tutte le sere i nostri genitori ci facevano viaggiare per terre e popoli distanti. Perciò, senza averlo visto, il nonno era un abitante della nostra casa. Ascoltavamo i suoi passi, conoscevamo la sua voce, indovinavamo i suoi silenzi. Il giorno della triste notizia, pensai che adesso spettava a me consolare mio padre. Era disteso sul letto. Non lo avevo mai visto così tanto disteso. E quel letto non mi era mai sembrato così tanto grande. Mi sedetti accanto a lui e gli chiesi: - Papà, il nonno è morto davvero? E lui rispose: - Tuo nonno è morto là, da quell’altra parte. Qui, continua a restare vivo. Non essendoci un’assenza, non ci fu la necessità di un lutto. Succedeva però che i morti dimenticassero di uscire dalla Vita. Nel buio della notte, non smisi mai di sentire i leggeri passi del nonno.

Come tutti gli esiliati, i miei genitori avevano fondato una famiglia come se fosse una patria. Come tutti quelli che vivono lontani, inventavano ricordi come fossero navi. Intonavano canzoni, recitavano poesie e creavano favole. Ad affascinarmi non era propriamente il contenuto di quelle storie. In realtà, non me ne ricordo neppure una. Ciò che non posso scordare è la magia che creavano. Il sublime momento di avere mio padre e mia madre tutti e soltanto per me. So che può essere un’illusione della memoria. Ma è a quella magia che torno ogni volta che scrivo. La casa dove sono nato, la casa dove ho visto piangere mio padre, la casa della mia infanzia, rimangono vive dentro di me. (È molto curioso il modo in cui ci riferiamo alla casa della nostra infanzia. Diciamo “la mia casa”, come se continuassimo ad abitarci per tutta la vita). Ciò che mi interessa dire qui è che io e la casa siamo fatti della stessa materia. Siamo fatti di storie.

Torno con la memoria a quei tempi per parlare del tema che ci porta a Roma. In fondo, le storie sono la materia della letteratura. Sapremo qual è il compito della letteratura quando sapremo di che materiali la letteratura è fatta. Può darsi che abbiamo inutilmente reso complicata la comprensione della letteratura. Forse l’abbiamo trasformata in un argomento per una élite accademica. Forse abbiamo allontanato dalla maggioranza della gente una cosa così semplice e così umana come la capacità di produrre e di ascoltare storie. Forse abbiamo separato la Vita dalla Poesia. Può darsi che in fondo tutto sia più semplice di come appare. È questo per lo meno il mio augurio. Tratterò questo intervento come una cosa più vissuta che pensata. Sono venuto fino a Roma nello spirito di condividere insieme a voi esperienze personali e non elaborazioni accademiche. Mentre preparavo questo intervento mi sono ricordato di quella volta in cui ero stato invitato a un congresso a Rio de Janeiro per parlare dell’origine e del futuro del Teatro. Ero nel panico. Non sono un drammaturgo e non ho credenziali nel campo delle arti sceniche. Cercai frettolosamente di improvvisare una qualche competenza. E lessi molto (e molto di fretta) libri e articoli sull’origine del teatro. E mi resi subito conto che l’argomento era terribilmente controverso, con teorie discordanti sul centro in cui storicamente sarebbero nate le prime forme di rappresentazione teatrale. Le tesi spaziavano dal Giappone alla Grecia, dalla Cina all’India, dall’Africa al Giappone. Ero in questo travaglio quando, ormai alla vigilia della conferenza, mio nipote Gabriel, che all’epoca aveva tre anni, entrò nella mia stanza e proclamò:«Io non sono più Gabriel! Io adesso sono te. E tu, tu non sei Mia. Tu sei Gabriel.» E subito dopo ordinò: e adesso andiamo a giocare alle persone! All’inizio, confesso, esitai a partecipare al gioco. Probabilmente avevo paura di quell’assoluto instaurarsi del caos. Ma alla fine cedetti. In fondo qualcosa mi diceva che quel gioco era una questione molto seria. E finii per rendermi complice di una dolce fabbrica di inganni, lasciandomi dissolvere da quell’assenza di me stesso. Quell’incursione di mio nipote Gabriel salvò il mio intervento al Congresso di Rio de Janeiro. Ecco qual era l’origine del teatro: giocare semplicemente a essere un altro. Gabriel non immagina quanto mi abbia aiutato. Non solo in quella situazione concreta. Ma quanto imparai dal piacere con cui quel bambino si trasfigurò in un altro. Mi commosse l’intensità con cui viveva quel momento, l’assoluta verità con cui quel bambino sognava se stesso e viaggiava verso un’altra esistenza. Sappiamo tutti giocare. È qualcosa di essenziale quanto dormire, mangiare o respirare. Ma giocare non è soltanto un’attività. È una specie di intossicazione, un vizio dal quale non si guarisce mai. Mentre gioca, il bambino entra in una specie di estasi. Questa trance produce in lui un primo effetto-doping. È un vizio che non nasce dal gioco in sé. Nasce piuttosto da un’esperienza di pienezza, da un’esperienza che potremmo chiamare «contatto con il sacro». In questa straordinaria pratica comincia la letteratura. E nello stesso punto cominciano tutte le arti. E vero che, anche da adulti, continuiamo a fantasticare.

La differenza è che siamo meno disposti a lasciarci possedere dalla fantasia. La differenza è che non ci abbandoniamo a questa magia se non in momenti socialmente consentiti. È successo qualcosa che ci ha fatto perdere questa disposizione a incantarci. Abbiamo perduto quell’abilità che non è solo di Gabriel ma della nostra stessa infanzia. Tutti i bambini del mondo si inventano diversi e passano con altrettanta facilità a vivere vite diverse dalla loro. Tutti sono scrittori senza scrittura, tutti raccontano una storia che dovrà sempre essere raccontata. Tutti lavorano intorno al serio tema di questo Festival: cosa resta da fare alla letteratura? È una domanda seria che richiede riflessione: “cosa resta da fare alla letteratura? Una domanda che fa pensare a ciò che può distinguere un vecchio saggio da un saggio giovane. Il giovane vuol essere il primo a rispondere. Il vecchio saggio impiega così tanto tempo a rispondere che, alla fine, nessuno si ricorda più qual era la domanda. In realtà non si può parlare di letteratura senza parlare del mondo che la circonda e del tempo in cui è prodotta.

È difficile pensare alla letteratura in un mondo in cui tutto è diventato oggetto di consumo immediato, usa-e-getta. Cosa resterà da fare alla letteratura se prevarranno le leggi del Mercato e gli editori e le librerie investiranno solo nei cosiddetti best-seller? Resterà ben poco se i criteri di pubblicazione privilegeranno i libri di auto-aiuto, di gastronomia e quelli che forniscono ricette per avere corpi belli, magri ed eterni. Ai giovani che bussano alle porte della letteratura si chiede se vogliono avere successo e diventare famosi. E se possono essere utili alla grande macchina che divora creatività e trabocca di merce. Tutti i giovani autori occupati nella ricerca di una loro voce originale dovranno aspettare nella lunga fila del silenzio e dell’anonimato. Che cosa si può fare, dunque? Non ho una risposta. Ma ho una dichiarazione di fede, ispirata alla mia personale esperienza. Ero molto giovane e pieno di sogni quando mi unii alla lotta di liberazione nazionale dei mozambicani. Il Mozambico. L’esercito coloniale era molto forte, troppo forte per osare pensare a una sua disfatta. Ma noi organizzammo una paziente lotta di guerriglia. E sfruttammo le piccole crepe di quella muraglia che sembrava eterna e perfetta. Credo che oggi ci tocchi un paziente lavoro di sgretolamento della muraglia. In una conferenza tenuta in Italia, José Saramago parlava della scrittura come di un viaggio fra la statua e la pietra. Non è importante che sia la statua a trasformarsi in pietra o la pietra a essere scalpellata per diventare statua; la verità è che la parola dello scrittore oscilla tra la sgorbia e il lento scolpire dell’acqua e del tempo. Se ci saranno quindi speranza e tempo, la letteratura compirà la sua missione. I grandi mali del nostro tempo sembrano identificati: i regimi dittatoriali, i fondamentalismi politici e religiosi, il sopravvento del Mercato nella società. Pensiamo a questi nemici come entità esterne a noi. Ma ci sono prigioni che abitano in noi, al di là delle occasionali circostanze di tempo e di luogo. È di queste prigioni che vorrei parlarvi. Il più delle volte sono catene invisibili o, ancora peggio, le consideriamo come parte della nostra stessa natura. Ho scelto di parlarvi brevemente di alcune di queste catene che ci imprigionano l’anima. La prima prigione è la cosiddetta “realtà”.

L’idea di “realtà” non è solo una prigione. È una dittatura. La cosiddetta “realtà” agisce come il gran controllore del nostro pensiero. Questa sentinella prende il nome di “ragione” o di “buon senso”. Quella che ci viene presentata come “realtà” è una produzione narrativa del potere. È un tipo di racconto che invita alla rassegnazione. Vuole suggerirci che la miseria e la fame fanno parte di una realtà ineluttabile. La letteratura può mettere in discussione questa rassegnata accettazione. E può svincolarsi dall’idea di una Storia trasformata in destino. Da sempre la letteratura ha sconvolto le frontiere della ragionevolezza. Gli scrittori hanno sempre praticato un’attività di contrabbando tra il possibile e l’impossibile. È questo che la letteratura dovrà fare ancora.

La seconda prigione è quella di un’identità pura e unica. Le identità sono sempre transitorie, plurali e precarie. Il problema è che sono quasi sempre vissute come eterne e definitive. L’idea di appartenere a un’unica e pura identità è forse una delle prigioni più sottili del nostro tempo. L’urgenza di identità è rafforzata oggi da un discorso politico che ha bisogno di trovare nemici in coloro che non posseggono la «stessa» identità. Il gioco di mio nipote è già una risposta contro l’imposizione di un’identità semplice e di una narrazione unica. La scrittura mi ha restituito la libertà di poter viaggiare attraverso gli altri. Mi ha dato la felicità di essere altri. Perché in realtà a poco vale la scrittura, se non ci fa risvegliare in altri corpi, in altre voci, in altri tempi. La letteratura potrà mantenere accesa questa propensione ad ascoltare altre voci e a farci abitare da altre logiche. Oggi è diventato banale invitare alla tolleranza. Questo invito è sempre insufficiente ed equivocato. Manca qualcosa di più radicale, che è l’appello alla solidarietà con gli altri. Manca soprattutto la sfida a essere noi stessi gli altri. La terza prigione è quella di un pensiero senza specchio. Non pensare è la peggiore delle prigioni. Soprattutto nel momento in cui rinunciamo al pensiero critico. Anche la più radicata delle nostre opinioni non è nostra e non deriva da un vero processo di riflessione. Sono opinioni fondate su un sistema vecchio e invecchiato di credenze e percezioni.

Alcune di queste percezioni sopravvivono da secoli. Sono il risultato di successive riduzioni e semplificazioni del mondo. Sono il risultato della nostra difficoltà ad affrontare la diversità e la complessità dell’universo. Viviamo sotto il dominio di sofisticate tecnologie. Ma le nostre paure sono le stesse che avevamo nel Medioevo. Uno dei pilastri del nostro pensiero è per esempio la dicotomia manichea, quel modo semplice e immediato di separare i “buoni” dai “cattivi”. Questa separazione delle acque comincia fin dall’infanzia. Per capire una storia, il bambino vuole sin dall’inizio sapere chi sono i buoni e i cattivi. Questa distinzione è altrettanto vitale della lingua stessa in cui la storia è raccontata. La storia diventa leggibile solo allorché si piega a questa formattazione elementare. È un ordinamento dualistico che ci accompagna per tutta la vita. Meno capiamo, più giudichiamo. La letteratura può concorrere a sopprimere questa dicotomia e invitarci a capire gli altri senza la necessità di un giudizio precostituito. Le storie e le poesie rivelano quanto siano plurali e contingenti le scelte di ogni essere umano. Una poesia di Fernando Pessoa dice così: Non basta aprire la finestra per vedere la campagna e il fiume. Non basta non esser ciechi per vedere gli alberi e i fiori.

Bisogna anche non avere nessuna filosofia. Con la filosofia non ci sono alberi; ci sono solo idee. C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo fuori. E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse, che mai è quello che si vede quando la finestra si apre. Quella che Pessoa chiama “filosofia” in fondo non è altro che il pensiero formattato che ci rende poco disponibili a stabilire un’intimità con altri esseri. La prigione della paura – la diffidenza verso la differenza. Ci hanno insegnato sin dall’infanzia ad aver paura degli sconosciuti. Ci parlavano della terribile minaccia di entità estranee, di mostri senza nome e fantasmi senza volto. Quei mostri e quei fantasmi riaffermavano l’antico inganno secondo cui siamo più al sicuro in ambienti che riconosciamo. Ingenuamente crediamo di essere più protetti solo perché non ci avventuriamo oltre le frontiere della nostra lingua, della nostra cultura, del nostro territorio. In realtà la maggior parte delle violenze domestiche sono state praticate non da estranei, ma da parenti e conoscenti. La costruzione della paura ha un obiettivo: renderci addomesticabili, farci accettare l’intervento di una specializzata cavalleria di eroi. Remissivi, rassegnati e in silenzio. È così che ci dicono di stare. Il mondo è in pericolo, viviamo in una situazione di emergenza, subiamo una specie di coprifuoco obbligatorio con innegabili restrizioni della libertà e della privacy. Senza rendercene conto siamo stati trasformati in soldati di un esercito senza nome. Come militari senza divisa abbiamo smesso di contestare. Non facciamo più domande e non discutiamo ragioni. Sorvoliamo sulle questioni di etica, giacché è provata la barbarie degli “altri”. Siamo tutti davanti all’entrata di un aereo senza volo, in un aeroporto chiamato Mondo. In nome della nostra sicurezza ci ordinano di toglierci le scarpe e di sbarazzarci di una bottiglietta d’acqua. E insieme all’acqua se ne va una parte della nostra anima. Dicono che viviamo in un villaggio globale. C’è bisogno di molta fede per credere a una simile metafora. Quella che abbiamo oggi è una geografia globalizzata della paura. Il cosiddetto “villaggio globale” non è un villaggio e non è globale. Ed è un bene che sia così, è un bene che questo nostro mondo mantenga la sua diversità di popoli, culture, lingue e religioni. Purtroppo la mondializzazione è imposta da soggetti il cui obiettivo principale è appropriarsi delle risorse e perpetuare i conflitti. Quel che un tempo era ideologia è diventato credenza, quel che era politica è diventato religione, quel che era religione si è trasformato in strategia di potere. Continuano a dirci che, per contrastare le minacce domestiche, abbiamo bisogno di più polizia, di più carceri, di più sorveglianza privata e meno privacy. Per affrontare le minacce globali abbiamo bisogno di più eserciti, di più servizi segreti e della temporanea sospensione dei diritti di cittadinanza. Sappiamo tutti che la strada giusta deve essere un’altra. Sappiamo tutti che quest’altra strada dovrebbe partire dal desiderio di conoscere meglio coloro che, da una parte e dall’altra, abbiamo imparato a chiamare “loro”.

La letteratura continuerà a essere un’arma contro questa logica di produzione di paure e di fantasmi. Perché la letteratura cerca la persona umana al di là degli stereotipi. La letteratura cerca la singolarità di ogni essere umano. Laddove gli altri vedono razze, credo, nazionalità, la letteratura identifica una persona con la sua storia, unica e singolare. Cari amici, ricorro un’ultima volta al mio nipotino Gabriel. Un giorno passeggiavamo in campagna, quando, all’improvviso, un serpente ci attraversò la strada. Il bambino non si spaventò molto. Guardò il serpente e disse: - Guarda quella bestia, ha solo il collo. Il nostro Tempo oggi è una bestia che ha solo il collo. Gli hanno mangiato la testa e la coda. Questa doppia amputazione è stata praticata dalla società dell’effimero in cui viviamo: tutto nasce transitorio, tutto nasce moribondo, in attesa che arrivi la nuova versione, più veloce, più leggera, più aggiornata. Viviamo in un regno dove tutto è immediato e simultaneo, tutto è veloce e vorace. L’impero dell’istantaneo ha detronizzato l’ieri come qualcosa di condannato, alla nascita, a essere obsoleto e da buttar via. Il mercato ci ha imposto un altro Tempo, un Tempo di consumo, un Tempo che consuma se stesso, accecato da una brama di velocità. Ci lamentiamo di non avere tempo per fare niente. Non abbiamo, per esempio, tempo per leggere un buon libro. Ma non è di più tempo che abbiamo bisogno. Quello che ci serve è un tempo che sia nostro. Non è una questione di quantità, ma di padronanza. Saremo padroni della nostra Vita se sapremo riconquistare un’antica intimità con il Tempo. La vera domanda non è che cosa può fare la letteratura. Ma è che cosa possiamo fare noi per conservarci autori di una narrazione che dovrebbe renderci più umani, più collettivi e solidali. La letteratura da sola non può salvare il mondo. Ma può mantenere vivo il desiderio e l’utopia del cambiamento. La letteratura farà nel futuro ciò che ha sempre fatto: creare un mondo in stato d’infanzia. Quel mondo sarà un giorno la casa in cui sentiremo le voci e i passi di coloro che pensavamo non stessero più con noi. (traduzione di Vincenzo Barca)

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