"Sono un regista libero, ma ho dovuto combattere per avere fiducia. Ogni cineasta dovrebbe fare film per se stesso, senza pensare agli altri o al successo. Per un artista il difficile è condividere le emozioni con il pubblico". Andrei Konchalovsky si racconta così all'ANSA, mentre sorseggia un tè in un bar del centro di Roma poco prima di presenziare alla proiezione di Paradise, film che premiato con l'RdC Award per il miglior film straniero nell'ambito della 20a edizione del Tertio Millennio Film Fest. "Nel cinema mi interessa raccontare tutto, perché non esistono storie noiose ma solo narratori noiosi. La cosa più interessante è trovare lo sguardo più intenso che si può dare alla realtà. Ma serve anche un buon udito, per riuscire ad ascoltare il sussurro di Dio", spiega il regista russo, che, dopo essersi aggiudicato con Paradise il Leone d'argento per la migliore regia a Venezia 73, è anche candidato dalla Russia all'Oscar come miglior film straniero. A chi cerca un parallelismo tra la dimensione dell'odio dell'Olocausto raccontato in Paradise e lo scontro, spesso sanguinoso, tra culture e religioni in atto ai giorni nostri, Konchalovsky risponde che "in un film non è mai questione di attualità, ma di emozione. La politica non mi interessa, perché cambia. Mentre il dolore è sempre dolore e il male resta male. Io cerco di sollevare domande: per questo il mio non è un film sull'Olocausto, ma sul perché il male riesca a sedurre", sottolineando che di questa tragedia che ha segnato irrimediabilmente il '900 "si può anche ridere, se il significato è alto e se le emozioni sono condivise".
"Il problema semmai è che oggi nel mondo ogni nozione viene banalizzata, soprattutto con Internet", prosegue, "accade anche con il sesso, in cui prima c'era qualcosa di sacro e mistico, ora non più. Per l'Olocausto non so se è peggio il negazionismo o chi resta indifferente. Dobbiamo combattere per la memoria, perché ciò che è successo nel '900 è già accaduto 3000 anni fa e può ancora succedere. Gli ufficiali nazisti non erano necessariamente cattivi, erano dei borghesi che facevano del male perché lo avevano visto fare già da qualcun altro". Pensando alle nuove generazioni di registi torna con la memoria a Robert Bresson "che diceva che il futuro del cinema è nelle mani dei giovani disposti a pagare per fare un film. Ma questo oggi va contro la filosofia che io chiamo della Coca Cola, quella che vuole il successo a ogni costo". Dopo il Leone d'argento a Venezia, lei potrebbe vincere un Oscar, e anche oggi le viene consegnato un riconoscimento: che rapporto ha con i premi cinematografici? "I premi fanno sempre piacere, sono come un regalo di Natale. Ma bisogna sempre essere pronti al flop, perché poi se ti premiano è un privilegio", afferma sorridendo, "il cinema è costoso, non è come con un romanzo in cui bastano carta e penna, e per i giovani registi la libertà può essere limitata, perché è difficile trovare un produttore che voglia investire soldi e che non pensi subito a quanto potrà guadagnare"
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