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40 anni fa Qualcuno volò sul nido del cuculo

40 anni fa Qualcuno volò sul nido del cuculo

Pluripremiato film di Forman e potente allegoria del '68

ROMA, 19 novembre 2015, 10:54

Giorgio Gosetti

ANSACheck

Jack Nicholson riceve l 'Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo - RIPRODUZIONE RISERVATA

Jack Nicholson riceve l 'Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo - RIPRODUZIONE RISERVATA
Jack Nicholson riceve l 'Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo - RIPRODUZIONE RISERVATA

La prima volta fu il 19 novembre con un’anteprima in simultanea tra New York e Los Angeles: a cast riunito, con Jack Nicholson e Louise Fletcher in testa, il regista Milos Forman affrontava il giudizio del pubblico al suo vero debutto americano dopo un esordio tutto newyorchese da indipendente con “Taking Off”. Quella sera il trionfo decretato a “Qualcuno volò su nido del cuculo” cambiò per sempre la vita del regista cecoslovacco (emigrante di lusso a Hollywood) e del suo interprete principale, ormai un mito del cinema americano “indie” tra “Easy Rider” e “Conoscenza carnale”.

Il giorno dopo il volo del Cuculo proseguì con il debutto al festival di Chicago e poi con la distribuzione in sala che si rivelò un inatteso successo al box office. Tra il gennaio e il marzo successivo arrivarono poi la consacrazione internazionale (il film incassò oltre 112 milioni di dollari nel mondo per approdare sugli schermi italiani il 12 marzo del ’76) e il diluvio dei premi: sei Golden Globe e ben 5 Oscar che celebravano il film, il regista, i due protagonisti e la sceneggiatura. Un autentico record eguagliato soltanto in altre due occasioni a Hollywood, all’epoca di “Accadde una notte” e poi del “Silenzio degli innocenti”. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ha tre padri, uno naturale e due putativi: lo scrittore Ken Kasey che nel 1962 riportò sulla pagina le sue esperienze di “cavia” di un ospedale psichiatrico dell’Oregon, dove aveva partecipato a un programma sperimentale della CIA sull’uso delle sostanze psichedeliche, trasformando il suo primo romanzo in un oggetto di “culto”, il testo di passaggio tra la Beat Generation di Allen Ginzberg e la cultura hippie degli anni ’60. Per anni Kirk Douglas che ne aveva acquisito i diritti cinematografici cercò di convincere i produttori a finanziare il film che voleva interpretare. Alla fine cedette il testimone al figlio Michael che trovò i fondi e arruolò Milos Forman per riscrivere la sceneggiatura. Per dissidi economici Ken Kasey fu tenuto ai margini e si è sempre rifiutato di vedere il film ed approvarlo.

La parte dell’eroe ribelle Randle Patrick McMurphy doveva andare a James Caan, o a Gene Hackman e perfino a Marlon Brando. Fu scelto invece il 38enne Jack Nicholson che usciva dall’esperienza europea di “Professione Reporter” con Michelangelo Antonioni. La parte dell’infermiera Mildred Ratched era stata scritta per Ellen Burstyn che dovette rifiutare per assistere il marito, ricoverato a sua volta in un ospedale psichiatrico. Louise Fletcher accettò all’ultimo momento utile e il suo lavoro di “mimesi” interpretativa fu talmente eccezionale che spesso le lodi andarono alla Burstyn con una impressionante sovrapposizione involontaria. Ma le due rivelazioni del cast, al fianco di giovani sconosciuti come Danny de Vito o Christopher Lloyd, furono l’esordiente Brad Dourif (il fragile e suicida Billy Bibit) e il gigantesco Will Sampson che nella parte del “Grande Capo” Bromden divenne un’icona e contribuì alla causa dei nativi americani incarnando l’anelito di libertà che della storia è il più dirompente e rivoluzionario messaggio.

Nel passaggio dal romanzo al film si perde invece il riferimento alla filastrocca originale ("Uno stormo di tre oche, una volò ad est, una volò ad ovest, una volò sul nido del cuculo “) che pure sopravvive nel titolo e ne spiega il senso, poiché in gergo americano il “nido” in questione è sinonimo di manicomio. Che si tratti di una metafora senza tempo è ben dimostrato dal recente adattamento teatrale di Alessandro Gassmann e Maurizio De Giovanni che riportano la vicenda dietro le sbarre del famigerato manicomio di Aversa. La ribellione di McMurphy, che entra in ospedale quasi da “visitatore” e scende gli anelli infernali della terapia repressiva fino all’elettroshock e alla lobotomia, prende di mira una visione della società, del potere, dell’omologazione che è un vero inno all’umanità del “diverso”, trasformando il manicomio in un microcosmo dantesco dove non ci sono cattivi e buoni, ma spiriti liberi e schiavi involontari del potere. Anche per questo il film rimane tra le più potenti allegorie del ’68, è ancora popolarissimo tra i giovani e figura in tutte le classifiche dei film più amati di ogni tempo.

La storia è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Salem (il villaggio delle streghe ai tempi dei pionieri) in Oregon. Quando ne varca la soglia Randle P. McMurphy è soltanto in osservazione: il medico gli spiega che resterà nella struttura il tempo necessario per stabilire se la sua presunta malattia è simulata o reale. Di fronte alle strette regole imposte dalla capo infermiera Ratched, l’uomo reagisce però inasprendo i suoi atteggiamenti ribelli, diventando un modello per gli altri pazienti che smettono di osservare un comportamento passivo. McMurphy si lega in particolare al giovane balbuziente Billy e al nativo americano Bromden che da sempre si finge sordomuto. Con loro progetta una fuga verso il Canada, ma all’ultimo momento rimane da solo e finisce stritolato dalla “medicina modello”. Restituito al reparto inerte e senza volontà dopo una devastante lobotomia, spinge Bromden a ucciderlo per pietà. L’indiano a quel punto sceglie la libertà e fugge da solo verso un destino tutto da scrivere. Rivisto oggi, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” colpisce per la modernità delle scelte di regia, per la capacità di evitare i rischi del cinema “claustrofobico” (buona parte delle scene fu girata nel vero ospedale dell’Oregon con la partecipazione di medici e pazienti che avevano diviso il tempo delle prove con i veri attori), per il tocco europeo che Milos Forman imprime a una storia profondamente americana. Del resto, da “Hair” a “Ragtime”, da “Amadeus” a “Valmont”, il regista de “Gli amori di una bionda”, l’ex figlio ribelle della Primavera di Praga ha sempre saputo coniugare al meglio le sue due anime, dando vita a un cinema di stile e di eleganza che sa guardare alle regole base dello spettacolo secondo la Bibbia di Hollywood. Oggi il suo capolavoro festeggia 40 anni senza polvere e senza ruggine e la sua metafora potente e vitale rimane un monito che il pubblico giovane capisce immediatamente di qua e di là dell’Oceano.

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