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Wallonwall, fotografie e frontiere ai margini delle città

Wallonwall, fotografie e frontiere ai margini delle città

22 luglio 2016, 17:31

Redazione ANSA

ANSACheck

WALLONWALL - Kopie, beach poles - RIPRODUZIONE RISERVATA

WALLONWALL - Kopie, beach poles - RIPRODUZIONE RISERVATA
WALLONWALL - Kopie, beach poles - RIPRODUZIONE RISERVATA

Arte diffusa per la città con Wallonwall. Fotografie e frontiere ai ‘margini’ della città, l’inedita mostra di fotografie ‘fuori formato’ di otto fra le più grandi frontiere esistenti al mondo, documentate nell’arco di dieci anni dal fotografo tedesco Kai Wiedenhöfer. La mostra si inaugura giovedì 8 ottobre nell’ambito del Festival Internazionale di Fotografia di Roma con una prima grande fotografia esposta negli spazi del museo MACRO.

Un progetto di arte pubblica che disegna a Roma una sorta di mappa delle frontiere che, a partire dalle pareti e dalle architetture del MACRO, si irradierà dal mese di dicembre anche al Teatro India, per estendersi nel 2016 alle mura perimetrali delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli. Un’installazione espositiva e muraria negli spazi aperti della città che si srotola per i suoi edifici di cultura e di reclusione, dal museo al teatro fino alle carceri, a evocare tutte quelle frontiere che rigano il mondo e Roma stessa. Ideato e curato dall’associazione culturale lacasadargilla insieme con Fotografia-Festival Internazionale di Roma, l’iniziativa si avvale della collaborazione di Teatro di Roma e il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura e allo Sport di Roma Capitale.
La mostra, con il tema del ‘muro’ al centro delle fotografie di Kai Wiedenhöfer, è il culmine di un progetto urbano e artistico che pone la questione tutta contemporanea dei confini e delle ferite su cui si sono edificate le controverse democrazie dell’Occidente, in un tempo in cui si erigono nuove barriere a difesa dell’Europa e le frontiere divengono il fossato del Mediterraneo. ‘Muri su muri’, fotografie di frontiere sulle mura della città, è anche un intervento di riqualificazione urbana per riportare sotto gli occhi dei cittadini queste architetture, raccontando quanto sia labile il confine tra la funzione di proteggere e arginare da quella del separare, dividere, chiudere.

Wallonwall. Fotografie e frontiere ai ‘margini’ della città prende le mosse da Linee di Confine, un cantiere allargato che la compagnia lacasadargilla ha costruito intorno al testo teatrale Lear del drammaturgo inglese Edward Bond dove si narra del principio di potere, violenza e controllo che disegna le società contemporanee e di tutti quei muri, tangibili o meno, che si sono costruiti e si vanno edificando nel mondo. Lear di Edward Bond (al Teatro India per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli dall’8 al 20 dicembre) e Wallonwall sono i due poli di un progetto diffuso e cittadino che apre il teatro alla città, affinché la scena e il mondo fuori – stampato in grande scala – sconfinino l’una nell’altro sotto gli occhi del cittadino-spettatore.
Esposte nel 2013 sull’ala Ovest del Muro di Berlino con il titolo Wallonwall, queste panoramiche raccontano frontiere e barriere che teatralizzano il potere e materializzano quello stato di pericolo diffuso in tutte le ‘cortine di ferro’ che separano il mondo.
2003-2012, quasi dieci anni per fotografare otto fra le più grandi frontiere esistenti al mondo. 6386 kilometri di linee tirate nel mezzo di Bagdad e della Corea, fra Stati Uniti e Messico, linee che isolano l’enclave di Ceuta e Melilla dal Marocco, che rigano Israele e i Territori Occupati, che spaccano in due Belfast o Nicosia (Cipro). Linee che hanno diviso, fino al 1989, la Germania. Gli scatti di Kai Wiedenhöfer cominciano qui, l’anno della caduta del muro, in bianco e nero a Potsdamer Platz, dal berretto di un gendarme. Dopo poco più di dieci anni l’inquadratura si allarga, si colora e registra un altro presente: le nuove barriere nate dopo la caduta del muro di Berlino e i vecchi muri che non crollano. Anche se la guerra contrae il tempo dello scatto, sono inquadrature lente quelle di Kai Wiedenhöfer. Hanno poco a che fare con l’‘istante decisivo’ del reportage, e sono più vicine a quegli ‘istanti infiniti’ in cui il presente si immobilizza, come nelle fotografie di Andreas Gursky o di Bernd & Hilla Becher: lunghi istanti di posa in cui le ombre di tetti e comignoli si stagliano sul muro di Bryston Street (Belfast, 2006) o le fenditure del cemento armato danno a vedere il cielo del confine (Berlino, 2009).
Il formato panoramico misura le lunghezze dei muri, l’estensione delle barriere. L’obiettivo contiene la vallata tutt’intera, dove il muro serpeggia e il paesaggio è interrotto dalle curve dei blocchi di cemento – case bianche da un lato, grigie dall’altro. Dove barattoli, sacchi colorati e detriti hanno lo stesso peso specifico delle case in lontananza di Shu’fat (Territori Occupati, 2008). Muri a confronto che, nel rigore dell’inquadratura, mostrano la loro forza simbolica. Apparentemente neutre, una in fila all’altra, queste fotografie di cemento armato, lamiere, filo spinato, palizzate, reti, circuiti elettrici, cancelli, rivelano la messa in scena del potere. Ma registrano anche quel che se ne fugge: un albero bianco dietro i bidoni nel mezzo di Nicosia (Cipro, 2012) o una striscia di sole che valica la porta stretta e quasi irreale che si apre nel muro di Bil’in (Territori Occupati, 2010).

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