ROMA - Estremo, assoluto atto di fede nella poesia e nel teatro, nella cultura, testamento di Pirandello che lasciò il testo incompiuto, 'I giganti della montagna' sono un testo complesso, ricco, impegnativo da portare in scena anche sul piano produttivo, e Gabriele Lavia, per realizzarne questa sua bella lettura, forse la sua cosa migliore sino a oggi per misura, forza e leggerezza, che si replica all'Eliseo di Roma sino al 30 marzo, ha messo insieme, oltre a un gruppo di ben 23 attori, il Teatro della Toscana, lo Stabile di Torino, il Biondo di Palermo, col sostegno di vari enti locali e del laziale Atcl, che saranno ovviamente tappe della sua lunga tournée.
Questa vicenda, che nasce dall'autobiografia stessa di Pirandello, dalle sue vicende personali e dal suo essere autore e impresario teatrale, summa della sua poetica, ha come protagonista il teatro stesso, la sua capacità di suscitare e far vivere fantasmi più reali della stessa realtà grazie alla poesia, che ha una sua intrinseca necessità e autonomia vitale, ma per esistere davvero e trasmettere il suo messaggio di fantasia e salvezza ha bisogno di essere portato tra la gente, lo racconta come minacciato, in fuga, e l'attuale finale aperto risulta più inquietante e moderno di quelli che si testimonia avesse in mente Pirandello. Il finale rombo del suono della cavalcata dell'avvicinarsi e passare dei Giganti, cui i grandi lavori di scavi, fondazioni, fabbriche "hanno sviluppato enormemente i loro muscoli e li hanno resi naturalmente anche duri di mente, un po' bestiali", vede l'attrice Diamante osservarli da lontano, dalla Villa, dicendo "Io ho paura! Ho paura". E' il sentimento di chi vede, come Pirandello, come Lavia, come direi tutti noi oggi assolutamente come allora, messo in pericolo da un popolo potente e ciecamente violento il mondo della cultura e della poesia rappresentato nella sua umana essenza dal teatro.
E allora ecco che in questa lettura la villa della scalogna è emblematicamente nella scena di Alessandro Camera un grande teatro col suo semicerchio di palchi distrutto, pericolante, come squassato da un terremoto, in cui vivono asserragliati e sopravvivono isolati il mago-regista Cotrone col suo gruppo di scalognati, curiosi e colorati personaggi come sopravvissuti a un passato di circo o cabaret nei costumi di Andrea Viotti, e dove arrivano grigi, decimati e miserabili per aver voluto ostinarsi a far teatro, a portare in scena 'La favola del figlio cambiato', l'attrice contessa Ilse col marito e sei attori della sua ex compagnia. Cotrone, che mostrerà loro tutte le magie di cui è capace lui e tutte le illusioni e i sogni che sa rendere vivi la poesia recitata, quando può vivere indisturbata come lì nella villa, li inviterà a restare, ma Ilse, che ha sempre rifiutato ogni corruzione ed è ormai prigioniera del personaggio della donna-madre del testo il cui autore si è suicidato perché lei non ha ceduto al suo amore, vuole tornare appunto a recitare e portare il teatro a vivere tra gli uomini. Per Strehler, che a questo testo tornò più volte, essa rappresentava la necessità, il sogno di un teatro pubblico, sogno infranto dai giganti, dal sipario di ferro che cadeva a schiacciare nell'ultimo finale la caretta dei comici che se ne vorrebbero andare, alludendo anche al tragico finale che pare avesse intesta l'autore. Per Lavia invece, che ci pare possa essersi ispirato alla bella intuizione di Alberto Savinio che vide nei 'Giganti' per Pirandello quel che era 'La tempesta' per Shakespeare, con un ideale accostamento tra Prospero e Cotrone, è l'esaltazione del potere illusorio, della verità del sogno del teatro come momento di purezza e innocenza dell'uomo a confronto e nonostante il farsi sempre più bestiale del mondo, con quella dichiarazione di paura finale, ma anche con quel passare oltre dei giganti, come è del resto anche in Pirandello che chiude col loro "frastuono che va allontanandosi".
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