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Anita Ekberg, quel ghiaccio svedese che incantò Fellini

Anita Ekberg, quel ghiaccio svedese che incantò Fellini

L'attrice che il regista rese icona mondiale con La Dolce vita

ROMA, 11 gennaio 2015, 18:29

di Giorgio Gosetti

ANSACheck

Anita Ekberg - RIPRODUZIONE RISERVATA

Anita Ekberg - RIPRODUZIONE RISERVATA
Anita Ekberg - RIPRODUZIONE RISERVATA

Ci sono attori per i quali il ruolo che li rese indimenticabili diviene un tesoro lungo una vita; per altri è una maledizione perenne contro la quale combattere sempre senza successo. La storia di Anita Ekberg, scomparsa stamane a Rocca di Papa dopo una lunga e dolorosa malattia, per sempre legata allo sfondo della Fontana di Trevi e al grido ''Marcello, come here'' nel cuore de La dolce vita (1960) è sempre rimasta in difficile equilibrio tra questi due opposti. Diversamente da Maria Schneider alle prese con il fantasma di Ultimo tango a Parigi, Anitona (come la chiamava Fellini) non si ribellò mai allo stereotipo, ma come tanti altri (Sean Connery in primis) provò in mille modi a costruirsi un personaggio diverso, fino all'ultima apparizione nel 2002 con la miniserie di Canale 5 Il bello delle donne2.

Kerstin Anita Marianne Ekberg era nata a Malmö, in Svezia, il 29 settembre 1931 ed è morta oggi in povertà, nella clinica di Rocca di papa che la ospitava da tempo. Circondata da ben sette tra fratelli e sorelle, ebbe un'adolescenza libera e burrascosa: a 19 anni è già una donna emancipata e grazie alla sua prorompente bellezza ad appena 19 anni, nel 1950, vince il titolo di Miss Svezia. Il viaggio a Hollywood, sulle tracce di altre conterranee famose da Greta Garbo a Ingrid Bergman sembra un segno predestinato: ben presto si fa notare dal produttore e pigmalione Howard Hughes che la mette sotto contratto, le propone il matrimonio (rifiutato), ma non la fa debuttare fino al 1953, quando la ragazza strappa tre piccole parti senza importanza nonostante a dirigerla siano Rudolph Maté e Douglas Sirk. Per tutti è però soltanto l'improbabile guardiana venusiana dello stravagante Viaggio al pianeta Venere con Gianni e Pinotto diretto da Charles Lamont. Due anni dopo non sfrutta la grande occasione con Artisti e modelle di Frank Tashlin in cui recita insieme a Jerry Lewis e Dean Martin, ma su quel set conosce Frank Sinatra che la corteggerà fino a chiederla in sposa. Hollywood impara a conoscerla come The Iceberg (con un gioco di parole sul suo nome) e i produttori cercano di collocarla tra il cliché della bellezza impossibile (capelli biondi, seno prorompente, lunghe gambe, gelida distanza degli occhi di ghiaccio) e quello della donna perfetta che chiederesti (invano) in moglie. Alla fine, nel 1956, King Vidor le propone il ruolo della perfida seduttrice Helena Kuragin in Guerra e pace e quella coproduzione con l'Italia la porta al sole di Roma dove ci penserà Federico Fellini a "sciogliere il ghiacciaio": nella parte della smarrita attrice straniera che si aggira tra i monumenti della città eterna in "La dolce vita", Anita Ekberg trova se stessa. Il film rigurgita di presenze femminili importanti che accompagnano il pellegrinaggio agli inferi di Marcello Mastroianni, ma è proprio Anitona a fare del film un'icona che riflette Roma.
    La carriera cinematografica di Anita Ekberg conta più di 60 titoli ed è ben strano che nessun altro sia in grado di competere con quei pochi minuti immortali de La dolce vita: Fellini la volle con sé ne Le tentazioni del dottor Antonio (1962) con un'altra apparizione tanto incisiva da finire perfino in un film del ciclo di 007 (Dalla Russia con amore) e poi - nel ruolo di se stessa - in I clowns e Intervista; altri la chiamarono sia a Hollywood che a Cinecittà sfruttandone la popolarità mondiale: ma l'alchimia unica del 1960 non si ripeté mai più. Era un'attrice sensibile e professionale, era una bellezza difficile da dimenticare; nella vita fece girare la testa a grandi italiani (due flirt mai confermati ufficialmente con Dino Risi e Gianni Agnelli) e ad attori americani che la sposarono (matrimoni turbolenti con Anthony Steel e Rick Van Nutter). Alla fine diventò il monumento di se stessa. Così le resero omaggio lo spagnolo Bigas Luna (Bambola del 1996 con la sua "erede" Valeria Marini) e il belga Yvan Le Moine (Il nano rosso del 1998). Ma nelle sue interpretazioni si avvertiva ormai un distacco amaro e una nostalgia segreta che erano il rintocco di una storia finita per sempre. Ritiratasi in una casa in campagna alle porte di Roma, isolata e poco incline a frequentare la comunità cinematografica, conobbe rovesci finanziari che la costrinsero a chiedere il sussidio pubblico; una brutta caduta con rottura del femore le rendeva difficili gli spostamenti; il volto si era allargato, una piega amara della bocca tradiva l'infelicità segreta. Ma fu l'unica a restare vicina a Giulietta Masina dopo la morte dell'amico Federico Fellini. Da anni la sua vita sembrava immobile e sospesa, come i grandi ghiacciai della sua terra. Oggi se ne piange la scomparsa, ma c'è da chiedersi se quel cinema che ne aveva fatto il suo monumento non avrebbe dovuto ricordarsi di lei più spesso e in modo più tangibile dopo che la bellezza assoluta era sfiorita per sempre. 
   

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