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Juárez non si ferma al confine

Juárez non si ferma al confine

di Benjamin Alire Saenz

03 luglio 2014, 13:31

Redazione ANSA

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Quando ero bambino, mio padre mi portava a Juárez una volta al mese insieme ai miei tre fratelli, per tagliare i capelli. A mio padre piaceva che portassimo i capelli corti, e per quanto la cosa non mi garbasse affatto, adoravo quei sabati pomeriggio in cui ci spostavamo dalla nostra fattoria nel New Mexico del sud, verso Juárez. C'erano settanta chilometri da casa nostra a quella strana città appena oltre il confine con il Messico. In realtà, però, attraversando il Segundo Barrio per raggiungere il Santa Fe Bridge, sembrava che una parte di Juárez vivesse e prosperasse già dentro El Paso. Poiché vivevo in una piccola cittadina dove tutti parlavano inglese, rimanevo stupefatto nel constatare che, a South El Paso, la lingua ufficiale era lo spagnolo. Tutti gli uomini portavano i baffi come mio padre, e avevano un cappello di paglia calcato in testa. Non ero incline alle analisi approfondite, in quegli anni: mi limitavo a respirare l'atmosfera. Era tutto misterioso, ma anche bello e pieno di fascino. Ero un ragazzino con un temperamento romantico, e a volte vorrei tornare bambino solo per poter rivedere il mondo in tutta la sua freschezza.

La nostra fattoria alle porte di Mesilla, in New Mexico, sembrava noiosa, prevedibile e tutta lavoro, e le strade della vicina Las Cruces erano deserte, quasi prive di vita in confronto a quelle di South El Paso e di Juárez. I ricordi di quei giorni continuano a scorrermi nel cervello come una banda di ragazzini scatenati sotto la pioggia. Amavo gli odori e i suoni, lo spagnolo e l'inglese mescolati, il rifiuto di depurare l'ambiente. Amavo i tassisti appoggiati alle loro auto, i mercatini, l'odore dei taco cucinati sulle bancarelle. Amavo guardare gli uomini e le donne che lavoravano in quei chioschi, e le loro mani esperte e indaffarate. Amavo il profumo delle tortillas fresche, del coriandolo appena sminuzzato e della carne che sfrigolava.
Amavo le vie affollate e il traffico, e ovunque mi girassi mi sembrava di sentire la musica che proveniva dalle radio ad alto volume o dalle orchestrine di strada. Amavo gli ambulanti che vendevano dolci messicani, sigarette e ciondoli. Amavo guardare le immagini di Gesù, di Nostra Signora di Guadalupe, di Elvis e dei toreri, impresse sul velluto nero. Quei dipinti di velluto e i pezzi degli scacchi in onice che spiccavano in tutte le vetrine mi sono rimasti dentro fino a oggi. Mi piaceva guardare gli uomini e le donne che contrattavano il prezzo con gli ambulanti. La consideravo una specie di arte sociale: un'arte che non ho mai imparato a padroneggiare.
Amavo l'odore della pelle e mi domandavo come sarebbe stato indossare un paio di stivali messicani. Amavo gli uomini che lucidavano le scarpe e che mi sembravano altrettante versioni di mio padre. Mi perdevo in un mare di baffi. Ai miei occhi di bambino tutto sembrava meravigliosamente alto, pieno di vita, miracolosamente libero da qualunque censura. Credo proprio che, in quegli anni, fossi convinto di vivere in un mondo dove la censura regnava sovrana. Abitavo in una fattoria dove tutto era avvolto nel silenzio. I campi di cotone erano ben ordinati, anche se non altrettanto si poteva dire della nostra vita famigliare.
Ma Juárez era tutta un'altra cosa. Le regole erano diverse, laggiù: mi pareva del tutto ovvio, anche se la mia mente di bambino non era in grado di coglierne nel dettaglio i motivi. Ai miei occhi, Juárez era l'incarnazione della vitalità. Era una città che andava oltre qualunque mia immaginazione. Solo la plaza di El Paso, con i suoi celebri alligatori, era in grado di eguagliare quell'atmosfera da carnevale.
Ovviamente c'era il problema della povertà. Per strada c'erano sempre dei mendicanti. Ma la povertà non mi spaventava. Perché avrebbe dovuto? Era una realtà già famigliare. Alla fattoria avevamo il gabinetto all'esterno, e un'unica tubatura che portava acqua fredda nella nostra casetta di mattoni rossi. E quell'unico tubo era tutto il nostro impianto idraulico. Già da bambino, però, capivo che nonostante fossimo poveri, vivevamo in un paese ricco. Il nostro televisore in bianco e nero ci mostrava degli sprazzi di quella ricchezza. Donne e uomini bellissimi, che pubblicizzavano cosmetici e dopobarba. Intuivo d'istinto tutti i messaggi subliminali, senza disporre ancora dei termini per spiegarli. Non serviva che mi dicessero quanto era ricca e privilegiata la nazione in cui vivevo. O quanto più poveri di me fossero i poveri di Juárez. O che la povertà rurale fosse molto meno brutale di quella urbana. Lo sapevo già, e questa consapevolezza mi è sempre rimasta dentro, rappresentando la base della mia formazione intellettuale, emotiva, psicologica e politica. A quei tempi non lo sapevo ancora, ma ero nato con l'istinto dello scrittore. Non mi è mai servita una macchina fotografica per catturare il mondo in cui vivevo. Avevo i miei occhi, e bastavano.
È stato attraversando quel ponte, durante la mia infanzia, che ho appreso per la prima volta che esistono le frontiere. Il secondo prima ero ancora negli Stati Uniti e il secondo dopo in Messico. Leggevo il cartello con l'avviso che mi trovavo in un altro paese. Guardavo le due bandiere che sventolavano sopra la mai testa, senza mai toccarsi. Mi domandavo se l'aquila americana fosse poi così diversa da quella messicana. Forse le aquile erano tutte uguali. Non lo sapevo. E avevo paura di chiederlo. I bambini capiscono quando le loro domande possono risultare fuori luogo. E gli adulti intorno a me, qualche che ne fosse il motivo, non mi davano mai risposte soddisfacenti.
Ma sapevo quel che provavo. L'ho sempre saputo. Attraversare la frontiera era fonte di esaltazione e di confusione al tempo stesso. Eccomi lì, in un altro paese. Il confine era immaginario. Non era niente di visibile a un occhio umano. Ma era essenziale credere che fosse qualcosa di reale. Questo lo capivo. E veniva dato per scontato che lo accettassi. Il Messico era il Messico. Gli Stati Uniti erano gli Stati Uniti. C'era una frontiera che ci differenziava e ci separava in modo inequivocabile. Si trattava di un articolo di fede. Era stato Dio, a tracciare quel confine. E la penna di Dio non commetteva mai errori. Ero un bravo ragazzino cattolico. Il mio compito era credere. E pertanto, credevo. Sono cresciuto credendo alla superiorità della mia nazione. Ogni volta che attraversavo quel ponte, mi veniva chiesto di dichiarare la mia cittadinanza. "Americana", rispondevo. E c'era qualcosa, in quella parola, che mi faceva sentire forte.
Quando attraversavo il ponte con mio padre e i miei fratelli ed entravo in Messico, c'erano dei ragazzini sotto le arcate che fabbricavano coni con la carta di giornale per prendere al volo le monete che i pedoni di passaggio gettavano loro dall'alto. Amavo guardare quei ragazzini e ho sempre portato con me la loro immagine come se fosse un quadro appeso nel museo della mia mente. Mi domandavo come fosse, trovarsi al loro posto. Forse rappresentavano un genere di povertà che non avrei mai conosciuto, ma anche, a parer mio, una libertà alla quale aspiravo con tutto me stesso.
Supplicavamo ogni volta nostro padre perché ci desse delle monetine da tirare a quei ragazzini. Mio padre si frugava nelle tasche e ci dava un penny per ciascuno. Bambini poveri che tiravano monetine a bambini ancora più poveri. Sognavo sempre di poter avere più di un penny. Magari una monetina da cinque, o da dieci centesimi. Ma quando ero bambino, arrivare a tanto era complicato.
Man mano che crescevo, Juárez ha continuato a occupare uno spazio speciale nella mia immaginazione. Pensavo a come sarebbe stato essere un messicano. Un messicano vero. Sapevo che i gringos consideravano anche noi "messicani". Perfino mia madre mi diceva che eravamo Mexicanos. Ma se eravamo Mexicanos, perché ci definivamo "americani" quando attraversavamo la frontiera per tornare negli Stati Uniti? Sapevo di non essere affatto messicano. Mi vergognavo, perché conoscevo la verità: non ero un messicano autentico. Ma mi vergognavo anche perché sapevo di non essere un vero americano, perciò la sensazione di forza che provavo dichiarandomi tale era una menzogna, e la forza stessa che sentivo in me non era autentica. Proprio così. Non ero un vero messicano e non ero un vero americano. E così, vivevo sulla strada tra la fattoria di mio padre nel New Mexico e Juárez, in Messico. A tratti il senso di confusione prendeva il sopravvento. Se il mondo era fisso e ben delineato, perché sentivo di appartenere a entrambi i lati della frontiera? Ero un traditore. Ero un eretico. Dovevo scegliere. Ma perché? Era questo il mio vero problema: avevo capito molto presto di non credere sul serio nel confine immaginario che qualcuno aveva tracciato arbitrariamente, per ragioni che sfuggivano alla mia comprensione. Non volevo essere separato dalla gente che viveva sull'altra sponda del fiume. Non credevo di essere più virtuoso solo perché ero nato nel mio paese, e non nell'altro. Eppure, era proprio questo che cercavano di inculcarmi.
Mi ha sempre interessato come gli adulti intorno a me parlavano del Messico in generale e di Juárez in particolare. Più che famosa, Juárez era malfamata. Era oggetto di chiacchiere, quasi sempre molto poco lusinghiere. Juárez era troppo povera, Juárez era troppo sporca, a Juárez si rispettava troppo poco la legge, ed è stato durante una discussione su Juárez che ho sentito usare per la prima volta il termine prostituta. A Juárez potevi pagare una tangente alla polizia e a volte eri costretto a farlo, ed esisteva un termine preciso per definire ciò che facevi: mordida. Certo, certo, me le sorbivo tutte, quelle chiacchiere. Juárez era pericolosa, andandoci rischiavi di perdere quel poco che ti rimaneva, o la tua virtù; potevi perdere tutti i tuoi soldi, potevi innamorarti della donna sbagliata, potevi addirittura perdere l'anima. Il diavolo abitava a Juárez. Il diavolo ti chiamava a gran voce. Juárez era attraente per tutti i motivi sbagliati ed era impervia agli effetti civilizzatori della cultura americana, della società americana e del sistema legale americano.
Se gli Stati Uniti rappresentavano l'ordine, allora Juárez, Messico, rappresentava il caos. Ma per molti residenti sulla frontiera, l'idea di ordine aveva i suoi limiti e una certa quantità di caos garantiva la necessaria dose di sanità mentale. Troppo ordine non faceva male alla vita? Forse il fatto che Juárez fosse fiorita durante il proibizionismo, traendo profitto dalle rigide leggi sul consumo di alcolici che hanno continuato a esistere in Texas fino all'inizio degli anni Settanta, serviva a sottolineare che Juárez era un luogo libero dall'influsso dei peggiori istinti puritani dell'America. Juárez era una valvola di sfogo culturale, uno spazio di fuga, un luogo da frequentare per bere e dedicarsi a un po' di sano peccato. Il peccato poteva includere o meno la prostituzione, un'idea che mi ha spaventato e al contempo attratto per tutta l'adolescenza.
Juárez era una Las Vegas dei poveri. Chi poteva permettersi di andare fino a Las Vegas per divorziare senza troppe chiacchiere? Chi poteva permettersi di andare ad Acapulco? Chi poteva permettersi di andare a Città del Messico? Tutti, però, potevano permettersi di arrivare a Juárez. Per molti di noi, Juárez era il solo Messico che conoscessimo. E il solo Messico che abbiamo amato.
Fino agli anni Novanta inoltrati, Juárez ha fornito una cultura di nightclub ai cittadini nordamericani. Da ragazzo, ci andavo spesso con i miei amici. I settanta chilometri tra Las Cruces, in New Mexico, e Juárez erano l'unico ostacolo che ci separava da una serata in libertà. Ci inzeppavamo tutti in una macchina, che parcheggiavamo subito prima del confine, dal lato di El Paso. Attraversavamo a piedi il Santa Fe Bridge, pieno di gente che abitava su entrambe le sponde. Era esilarante trovarsi in mezzo a quella folla. Sorrido ancora ripensando al ragazzo che ero - un ragazzo che desiderava disperatamente diventare uomo - e rivedendomi mentre attraversavo il ponte con la felicità nel cuore, pronto alla mia dose di trasgressioni.
Probabilmente ero troppo giovane per poter bere alcolici nel New Mexico, ma non per sedermi in un bar di Juárez con i miei amici e ordinare un Cuba Libre, il drink de jour della mia generazione. Potevamo fingere di essere adulti, fumare, ballare, discutere della guerra del Vietnam e lamentarci dei nostri genitori e dei nostri insegnanti incapaci, sognando che, da adulti, saremmo stati diversi. Scoppiavano spesso delle risse, soprattutto tra fazioni di ragazzi o soldati americani che non riuscivano a frenare la lingua, o il palato. Al primo segnale di scontro, trascinavo sempre via i miei amici. Non avevo nessuna intenzione di finire in una cella di Juárez, come era successo a un po' di gente che conoscevo. In quel caso, sarebbe stato inevitabile tirare in mezzo i genitori. Preferivo evitare che accadesse: avevo paura che mio padre si rifiutasse di pagare la cauzione, per darmi una lezione che non avrei dimenticato.
In ogni caso non ci sapevo fare, con i pugni. Le parole sono sempre state la mia arma preferita.
Ci sono dei posti che ricordo in particolare, locali come The Cave, il Club Hawaii e il venerabile Kentucky Club. Le strade straboccavano di militari e di adolescenti americani, ma anche di gente del posto e di residenti adulti di El Paso che frequentavano ristoranti come Martino's, un'altra istituzione venerabile dove ho gustato il mio primo Chateau Brillion. Quel ristorante è stato chiuso durante la peggior ondata di violenza che le strade di Juárez ricordino, ma di recente lo hanno riaperto, anche se ormai attrae ben pochi clienti.
In estrema sintesi: quando ero ragazzo, Juárez era una città felice e generosa. Per quanto "pericolosa" potesse essere, era pur sempre un luogo relativamente sicuro per gli adolescenti come me. Cosa ben più importante, Juárez ha offerto a molti di noi un punto di vista alternativo sull'universo che ci circondava. È stata Juárez, molto più di El Paso, a fornirmi un'idea della "città". Prima di ogni altra cosa, una città doveva trasudare di energia e vitalità. Pulsare come un gigantesco cuore. La città doveva farti sentire vivo.

II

Non è vero, come ho tentato di dire poco fa, che la presenza di un'estrema povertà a Juárez non mi turbasse. In realtà, man mano che crescevo, mi sono accorto che la città era segnata da profonde differenze di classe. I ricchi sembravano particolarmente ricchi, e i poveri molto, molto poveri. Questa consapevolezza mi ha sempre tormentato. Ero un ragazzo innamorato dell'idea di democrazia, e con idee molto spinte in materia di eguaglianza. Il mero fatto che esistessero delle classi sociali mi creava non pochi problemi. E tra le diverse classi sociali, a Juárez, esisteva un vero e proprio abisso.
Le case sulle colline che costeggiavano la I-10 erano segni visibili di un'esistenza davvero misera. Nessuna delle strade era asfaltata. L'unica piscina del quartiere era il Rio Grande. Da bambino e poi da ragazzo cercavo spesso di immaginare che cosa comportasse, vivere in quel modo. Più tardi, quando cominciai a esplorare le condizioni di vita a Juárez in tutte le loro sfaccettature, avrei scoperto che, per quanto umili potessero essere, quelle casette sulle colline non rappresentavano certo le zone più povere della città.
Nel corso della mia vita i messicani mi hanno strigliato spesso e volentieri, ricordandomi che la mia familiarità con Juárez significa ben poco. Insistevano nell'affermare che Juárez non è il Messico, ma una città di frontiera, e come tale un'anomalia ben poco rappresentativa del Messico vero. Sì, rispondevo annuendo, Juárez non è il Messico. Juárez non è Monterrey, non è Guanajuato, non è Oaxaca, non è San Miguel de Allende, e decisamente non è Città del Messico.
Ci sono parecchie cose che avrei da ridire, sulla Juárez dei nostri giorni. Ma il tono sdegnoso che ho sentito usare da tanti messicani quando ne parlano mi ha sempre fatto arrabbiare, e non poco, perché lo considero un modo di schernire i poveri. L'odio verso i poveri è sempre stato una sorta di passatempo al quale tutti ci dedichiamo, senza neanche rendercene conto.
Juárez non sarà una splendida città coloniale messicana, cosparsa di rovine azteche e maya, ma come si fa a dire che non è Messico? Per conto mio, Juárez è una città decisamente messicana. Le città messicane di confine vengono spesso accusate di essere impure, contagiate dall'influsso della lingua e della cultura americane. Può darsi che sia così. Ma dubito decisamente che esista una sola città messicana libera dall'influsso della cultura americana e della politica americana, bianca e non. È proprio questo il problema che il Messico in generale e Juárez in particolare si trovano a dover affrontare. L'influsso americano è una sorta di veleno che permea la vita politica e culturale del Messico. Uso il termine "veleno" deliberatamente. Il veleno uccide. Da tempo ormai sono convinto che uno dei motivi per i quali il Messico non riesce a prosperare è l'incapacità di liberarsi dall'influsso del suo ricco vicino a Nord. Ne è derivata una psicologia conflittuale nella quale convivono ammirazione, invidia e risentimento. In parte, il Messico soffre di un disprezzo di se stesso che viene prodotto in America. Guardarsi in faccia attraverso gli occhi di un altro è un po' come morire.

III

Quasi vent'anni fa, sono tornato sulla frontiera per vivere, lavorare, scrivere. Non me ne sono mai pentito. Il mio destino è vivere sotto il fuoco incrociato di due nazioni che continuano a fraintendersi. La situazione in questa zona di frontiera mi intristisce profondamente. Sono disgustato dalla corruzione e dall'incompetenza del governo messicano, ma sono altrettanto disgustato dalla demonizzazione del popolo messicano nel paese cui dichiaro di appartenere.
Lasciate che metta in chiaro un elemento cruciale, da non perdere mai di vista: a Juárez non c'è solo l'apocalisse, ma anche una larga dose di normalità. Gli abitanti di Juárez continuano a lavorare, pagati una miseria; continuano a cantare canzoni d'amore e di protesta, continuano a ballare, continuano a creare arte e a fare tutte le cose richieste dal semplice fatto di vivere. Non c'è solo morte a Juárez: c'è anche vita. Tra i messicani esiste una generosità ammirevole e commovente, anche se molti di noi che viviamo a "El Norte" ci rifiutiamo di lasciarci commuovere. Siamo una nazione in pieno conflitto interiore. Siamo una nazione generosa. Ma in questo preciso momento storico, gli Stati Uniti sono decisamente ingenerosi nei confronti dei messicani che sono entrati illegalmente nel loro territorio. Si tratta di un argomento penoso e sgradevole: sono profondamente turbato e mi vergogno delle parole cariche d'odio lanciate come proiettili contro un gruppo di persone che hanno avuto il coraggio di costruirsi da zero una nuova vita.
Alcuni amici di Juárez hanno aperto una biblioteca in un quartiere molto povero, nei pressi dell'aeroporto. Laura ha trasformato il soggiorno di casa sua in una biblioteca destinata alla comunità. Insieme a Ivan ha raccolto i libri, costruito le mensole e creato uno spazio per i bambini del quartiere. Mi hanno invitato come ospite d'onore, il giorno dell'inaugurazione. Li ho aiutati a tagliare il nastro. Avevano organizzato una festa, con tacos al carbon e un mimo che intratteneva la gente del quartiere, radunatasi per l'evento. Ho avuto il grande privilegio di leggere ai bambini uno dei miei libri. Juárez non è solo inondata dai cuori contorti e grotteschi dei suoi violenti trafficanti di droga: è anche piena di gente generosa, che ama la propria comunità. Juárez strabocca di persone che, pur nel mezzo del caos, non riescono a perdere la speranza. Certo, a Juárez il caos esiste eccome. Ma esiste anche l'ordine.
C'è chi dedica tutta la sua vita a distruggere una città, e chi si impegna a ricostruirla dalle rovine.
La disciplina, il desiderio e la disposizione naturale hanno fatto di me uno scrittore. Uno scrittore che vive sulla frontiera. Non posso e non intendo guardare dall'altra parte. Il mio compito consiste nel dare una forma articolata a ciò che vedo e nel cercare di trarne un'arte in grado, forse, di civilizzare e arricchire emotivamente la società cui appartengo.
Vorrei con tutto me stesso far vedere alla gente del mio paese quel che io vedo. E far sentire loro quel che io sento. A volte la povertà delle mie parole mi scoraggia, ma voglio che questo paese capisca una volta per tutte quanto sia inutile costruire muri. Voglio far capire a tutti che odiare i messicani non ci renderà un popolo migliore. È arrivato il momento di accettare il fatto che Juárez non si ferma al confine. So bene che milioni di persone non vogliono sentirselo dire, e vogliono credere il contrario, ma è mio dovere ribadirlo: Siamo tutti Juárez. Juárez è un microcosmo di tutto quel che il mondo sta diventando. E io voglio credere con tutto me stesso che noi siamo meglio di così.
So bene quanto sia ingenuo e utopistico credere che i confini possano essere abbattuti. Ma dovremmo se non altro riconoscere che i confini sono inventati ad arte da popoli che hanno bisogno di separarsi dagli altri. Fissiamo dei confini per scopi politici ed economici. La terra non ha alcun confine tracciato sul suo dorso. Siamo noi a disegnarli. Vivo in una parte del mondo che apparteneva ai nativi americani, è stata annessa alla Spagna e infine conquistata dal Messico. E adesso fa parte degli Stati Uniti. Non per caso lo Stato nel quale sono nato si chiama "New Mexico". La storia della terra che ho sotto i miei piedi mi insegna che i confini sono più fluidi di quanto ci piacerebbe credere.
Voglio dichiarare un'ultima cosa, sulla questione dei confini: esistono per tenere fuori i poveri. Per i ricchi, non esistono confini. Cerchiamo di essere onesti su questo punto, che è fin troppo evidente. Viviamo tutti in un momento storico confuso e conflittuale. Troppi tra i nostri concittadini credono che il confine tra Stati Uniti e Messico sia una realtà statica e prefissata. Milioni di messicani poveri sono venuti nel nostro paese per lavorare e sopravvivere. Si sono rifiutati di rimanere seduti dov'erano, a morire. Di accettare lo status quo di un mondo che li sfida con un mazzo di carte truccato. Hanno decostruito l'idea stessa di un confine statico. Ma anche se insistiamo ad affermare che il confine da noi tracciato fa parte dell'ordine naturale delle cose, quel confine non riuscirà comunque a tenere separati gli Stati Uniti e il Messico.
Il Messico e gli Stati Uniti appartengono l'uno agli altri.
Juárez ed El Paso appartengono l'una all'altra.
Non so quanto tempo ci vorrà perché i cittadini che vivono sui due lati del confine capiscano questo dato di fatto brutale e bellissimo al tempo stesso.
È questo il Messico che torna sempre a popolare la mia immaginazione: un Messico che non esiste ancora. Una Juárez che non esiste ancora. Un giorno, continuo a ripetere a me stesso, Juárez diventerà il centro politico e culturale delle Americhe. Juárez diventerà una città degna di chi la abita. Il Messico diventerà una grande nazione, nella quale la parola giustizia non è solo uno specchio per le allodole. Il Messico creerà un sistema giudiziario e un governo in grado di servire una popolazione che ha una disperata sete di giustizia. Il Messico la smetterà di sacrificare i suoi lavoratori sull'altare di un ordine economico mondiale crudele, e dirà agli Stati Uniti e al resto del mondo che i suoi cittadini hanno diritto a una paga onesta per un lavoro onesto. E tutti i messicani che sono morti con la parola Libertad sulle labbra non saranno morti invano.
Negli Stati Uniti continuiamo a ripetere a noi stessi una palese menzogna: i messicani sono un popolo barbaro e violento. E invece, per quanto la barbarie e la violenza pervadano il Messico, i messicani sono molto simili a noi. Vogliono lavorare, amare e vivere in pace. Dobbiamo ricordare a noi stessi che nel nostro paese la violenza e la barbarie coesistono e competono con i nostri impulsi più generosi, democratici ed egualitari.
Tutti i paesi sono sempre in lotta con se stessi. Ogni paese vive le proprie contraddizioni. Un giorno, i due paesi che amo sapranno essere all'altezza dei loro ideali utopici. Ma non oggi. Oggi vivo in quello spazio scomodo e di confine nel quale i morti e i vivi di Juárez mi perseguitano e mi seguono fin sulla pagina scritta. Per me, non possono esserci confini. Juárez è radicata nell'angolo più profondo del mio cuore, e da lì si sporge e avanza ogni giorno, in cerca della luce.

 

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