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Omicidio Macchi, un cartone e un identikit contro Piccolomo

omicidio macchi

Omicidio Macchi, un cartone e un identikit contro Piccolomo

Emerge dagli atti delle nuove indagini della Procura Generale di Milano.

MILANO, 27 luglio 2014, 17:23

Redazione ANSA

ANSACheck

Omicidio Macchi: identikit e foto d 'epoca di Piccolomo - RIPRODUZIONE RISERVATA

Omicidio Macchi: identikit e foto d 'epoca di Piccolomo - RIPRODUZIONE RISERVATA
Omicidio Macchi: identikit e foto d 'epoca di Piccolomo - RIPRODUZIONE RISERVATA

Per ventisette anni la morte di Lidia Macchi, studentessa universitaria uccisa a coltellate e trovata cadavere nel 1987 nei boschi del Varesotto, è rimasta un 'giallo' irrisolto. Ora, però, uno "spiraglio di luce", come lo definiscono gli stessi familiari della giovane, è comparso in mezzo al buio in cui sembravano immerse le indagini.

Tra gli elementi indiziari a carico del presunto 'killer seriale' Giuseppe Piccolomo, accusato di omicidio volontario aggravato per la morte di Lidia Macchi, il cui cadavere venne ritrovato nei boschi del Varesotto nel 1987, c'è anche un cartone da imballaggio che venne trovato sopra il corpo della ragazza uccisa. E' quanto emerge dagli atti delle nuove indagini condotte in questi mesi sul 'cold case' dalla Procura Generale di Milano che ha chiuso l'inchiesta nei confronti dell'artigiano di 64 anni, già condannato all'ergastolo per il cosiddetto 'delitto delle mani mozzate' e indagato per omicidio anche in relazione alla morte della moglie.

Tra gli elementi a carico di Piccolomo, stando alle indagini del sostituto pg Carmen Manfredda, ci sono le dichiarazioni delle figlie di Piccolomo da cui è partita la nuova inchiesta e che hanno raccontato che l'uomo diceva loro, quando erano piccole, che aveva ucciso Lidia Macchi. In più, le modalità dell'omicidio Macchi sono simili a quelle del delitto delle 'mani mozzatte': 29 coltellate nel primo caso, 23 nel secondo e in entrambi i casi con anche fendenti alla gola.

Inoltre, gli inquirenti hanno confrontato l'identikit redatto all'epoca sulla base delle testimonianze di quattro ragazze che avevano subito tentativi di aggressione in quel periodo, negli anni '80, nel parcheggio dell'ospedale di Cittiglio (Varese). Lo stesso ospedale dove Lidia era andata a trovare un'amica il 5 gennaio del 1987, quando scomparve. Identikit, seguito anche da un'elaborazione cosiddetta 'photofit', compatibile, secondo gli inquirenti, con una fotografia che ritrae Piccolomo all'epoca, data la forte somiglianza. Inoltre, il cadavere di Lidia venne trovato coperto da un cartone da imballaggio con su scritto ''elemento anta olmo, maneggiare con cura''.

Il sostituto pg ha condotto accertamenti e ha scoperto che quegli imballaggi venivano usati negli anni '80 da un'azienda di Laveno (Varese) e che il legno di olmo era utilizzato prevalentemente per mobili molto piccoli adatti soprattutto per le camerette dei bambini. Le due figlie di Piccolomo, testimoniando, hanno raccontato che nel 1986 il padre aveva comprato mobili di quel tipo per la camera del loro fratellino. Da un atto notarile, infine, risulta che il primo gennaio del 1986 Piccolomo con la famiglia si era trasferito in una casa distante poche centinaia di metri da quella della famiglia Macchi.

Primo caso in cui si ricorse Dna in Italia
E' stato il primo caso in Italia in cui si ricorse al test del Dna, l'omicidio di Lidia Macchi, la studentessa ventunenne uccisa a coltellate nel gennaio del 1987 nel varesotto. Un cold case di cui si parla di nuovo in questi giorni perché a Milano sono state chiuse le indagini nei confronti di Giuseppe Piccolo, l'imbianchino autore del cosiddetto delitto delle mani mozzate, accusato di aver ucciso anche la ragazza dopo averla violentata. Allora l'esame veniva definito test per rilevare l'impronta genetica ('dna finger printing') e il materiale organico trovato sul corpo di Lidia venne mandato nel laboratorio inglese di Abingdon. Lo stesso laboratorio analizzò anche il sangue delle persone coinvolte nell'indagine, come lo stesso Don Antonio Costabile, in quel periodo sacerdote della parrocchia San Vittore di Varese, frequentata da Lidia. In quei giorni Monsignor Riccardo Pezzoni, prevosto della parrocchia, ribadendo la sua profonda convinzione sulla completa estraneità del sacerdote alla vicenda, sottolineò che Don Antonio si era sottoposto volontariamente al prelievo 'per potersi così liberare da ogni sospetto'. Gli esami diedero esito negativo (pare che il materiale organico prelevato sul corpo di Lidia non fosse sufficiente per risultati più sicuri) e il delitto è rimasto insoluto da 27 anni. Per l'Italia era comunque una novità, al punto che la trasmissione 'Giallo' condotta dal giornalista Enzo Tortora commissionò un sondaggio alla Demoskopea, su un campione di 500 uomini in età compresa fra i 15 e i 60 anni, sulla disponibilità a sottoporsi volontariamente ai test dna.

Il punto di Igor Greganti
La svolta si è avuta con il lavoro degli ultimi mesi della Procura Generale di Milano che prima ha tolto l'inchiesta dalle mani dei pm di Varese e poi l'ha chiusa accusando di omicidio volontario aggravato Giuseppe Piccolomo. Quest'ultimo, artigiano di 64 anni, è allo stato anche un presunto serial killer, dato che è già stato condannato all'ergastolo per il cosiddetto 'delitto delle mani mozzate' del 2009 ed è sospettato anche di aver ucciso la moglie. Con l'avocazione dell'inchiesta, che è stata coordinata negli ultimi otto mesi dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, è stata fatta "finalmente", come spiega Alberto Macchi, fratello di Lidia, "un po' di chiarezza, anche se noi attendiamo il lavoro della giustizia con discrezione, senza odio, né voglia di rivalsa".

Alberto, che era un bimbo di pochi mesi quando venne trovato il corpo della sorella di 21 anni, racconta con garbo che le indagini della Procura di Varese sull'omicidio hanno avuto certamente "alcuni limiti che ora sono emersi in modo evidente, anche se poi non sta a noi della famiglia dirlo". Tra questi "limiti", secondo il giovane, oltre alla "cattiva conservazione di alcune prove", anche la scelta degli inquirenti di non far uscire mai formalmente dall'inchiesta Don Antonio Costabile, all'epoca responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia. Il sacerdote, ora sessantenne, fu uno dei 4 religiosi sentiti come testi nelle prime fasi delle indagini. Su di lui in particolare, all'epoca poco più che trentenne, occhi azzurri e sorriso tranquillo, come lo descrivevano le cronache, si sono concentrati per anni gli inquirenti. Era parroco nella zona e amico di Lidia, ma non c'era alcuna prova contro di lui e l'esame del Dna tolse ogni dubbio. Per 27 anni, tuttavia, il suo nome è rimasto nell'inchiesta e ci ha pensato il sostituto pg Manfredda a chiedere l'archiviazione per la sua posizione, censurando nell'atto anche l'operato degli ex titolari dell'inchiesta, e a chiudere le indagini, in vista della richiesta di processo, nei confronti di Piccolomo, anche accusato di presunti abusi sessuali sulla ragazza. Intanto, da questa anche per lui drammatica vicenda Don Antonio è uscito con grande dolore e amarezza.

Da qualche anno è responsabile del servizio di catechesi della diocesi di Milano e tutta la sua attenzione è rivolta a progettare i percorsi più adatti per avvicinare i bambini alla vita cristiana. "Non ho mai detto nulla e continuerò a non parlare di quella storia", ha risposto gentile ma deciso a chi ha tentato di avvicinarlo. Pacati anche i toni della famiglia Macchi, che valuterà nel corso del procedimento se costituirsi come parte civile. "Noi - ha spiegato Alberto - non dobbiamo trovare un colpevole a tutti i costi e attendiamo il lavoro dei magistrati. Per noi - ha aggiunto - Piccolomo è uno sconosciuto e da questo punto di vista, se un processo provasse che è stato davvero lui, l'unico sollievo nel dolore sarebbe che ad uccidere non è stata una persona che frequentava la nostra casa". Dure, invece, sono le parole delle figlie di Piccolomo contro il padre. "Lui è sempre stato un 'mostro' di padre, un 'mostro' di marito e un 'mostro' di uomo", spiega Tina Piccolomo. Le sue dichiarazioni a verbale, come quelle della sorella Cinzia, sono risultate decisive nelle nuove indagini assieme a una serie di altri elementi, tra cui un identikit. "Noi abbiamo sempre detto ai pm di Varese - aggiunge Tina - che lui aveva ucciso nostra madre e che ci ripeteva, quando io e mia sorella avevamo 15 e 12 anni, che aveva ammazzato Lidia. Intanto rideva e io pensavo che lo dicesse per spaventarci, ma mia sorella è sempre stata convinta che fosse lui l'assassino''.

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