Insaccare le carni della selvaggina uccisa durante l'autunno, conservarla in luoghi asciutti per poter sfamare la famiglia per tutto l'anno. Così è nata la 'pitina', insaccato tipico delle zone povere del Pordenonese, in particolare la val Tramontina e la val Cellina.
Oggi la pitina è diventata una vera specialità e non si può girare il Friuli Occidentale senza trovarla nei menù tipici dei ristoranti stellati o delle trattorie più rustiche. Da prodotto povero, insomma, è diventata presidio Slow food e pietanza da gourmet.
Ma come si prepara? Un tempo la carne veniva triturata nella 'pestadora', un ceppo in legno incavato, assieme a sale, aglio e pepe nero spezzettato. Si formavano delle piccole polpette che si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulle mensole del fogher. Oggi l'affumicatura si realizza con diversi legni aromatici, ma con la prevalenza del faggio. Viene spesso ingentilita da una parte di carne di maiale (lardo o capocollo) che smorza il sapore intenso e un po' selvatico della carne di capriolo, capra o pecora. La stagionatura della pitina è di almeno 30 giorni e si può mangiare sia cruda - come un comunissimo salame - che cotta, anche nelle sue varianti peta e petuccia che differiscono dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell'impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi.
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