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Responsabilità editoriale di ASviS
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di Flavio Natale
Se cambia il contesto devono cambiare gli strumenti tramite i quali si agisce in quel contesto. Questo assunto è comune a molte discipline: dalla tecnologia alla sanità, dall’istruzione alla comunicazione, l’essere umano ha sempre sperimentato forme di adattamento diverse a seconda delle diverse sfide. Il Covid-19, ad esempio, ha portato nuove norme sanitarie e sistemi educativi prima impensabili.
Esistono però settori dove questo assunto fatica a ingranare. Un esempio: il sistema finanziario globale, e nello specifico il Fondo monetario internazionale (Fmi).
C’è infatti una grande discussione in corso ultimamente sulla “crisi di identità da incubo” che, secondo l’Economist, sta attraversando il Fondo, schiacciato tra meccanismi finanziari obsoleti e rivalità sino-americane.
Sul tema è intervenuto il segretario generale dell’Onu António Guterres, in occasione del summit sugli SDGs (18-19 settembre), appuntamento quadriennale organizzato dalle Nazioni unite per fare il punto sull'attuazione dell'Agenda 2030. L’intervento del Segretario è stato, come nello stile di Guterres, diretto e perentorio: è fondamentale, ha detto, riformare “un’architettura finanziaria internazionale che è obsoleta, disfunzionale e ingiusta”, promuovendo un migliore accesso dei Paesi in via di sviluppo alle risorse economiche.
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Da sottolineare che nella dichiarazione finale elaborata a valle del Summit stesso, condivisa e firmata da capi di Stato e governo, tra i 43 punti enunciati, ben due punti (31 e 38 ix) sottolineino la necessità di finanziamenti e azioni “urgenti” da parte delle banche multilaterali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo.
L’argomento è stato trattato anche dal Parlamento europeo nella risoluzione del 15 giugno sull'attuazione e realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, in cui viene richiesta "una profonda revisione dell'architettura finanziaria mondiale al fine di allinearne tutte le parti con l'Agenda 2030, con l'accordo di Parigi sull'azione per il clima e il quadro globale in materia di biodiversità".
Il tema è stato ripreso anche da un recente policy brief dell’ASviS, “‘Il salto da gigante’” - Nuove politiche globali per vincere le sfide del nostro tempo” (elaborato per tradurre in proposte politiche le raccomandazioni del rapporto al Club di Roma “Earth for All”): nel documento l’Alleanza sottolinea la necessità di una “riforma del sistema economico globale".
Ma perché c’è tutto questo bisogno di riformare il sistema finanziario?
Fondo monetario cercasi
Partiamo da qualche cenno storico. Il Fmi, fondato nel 1944 a Bretton Woods per garantire la stabilità macroeconomica globale, è nato per erogare prestiti agli Stati in difficoltà ed evitare svalutazioni traumatiche: nei suoi 80 anni di vita ha prestato 700 miliardi di dollari a 150 Paesi. Il Fondo ha anche la capacità di generare autonomamente moneta attraverso gli Special drawing rights (“moneta” prodotta dal Fmi, il cui valore è ricavato da un paniere di valute nazionali rispetto alle quali si calcola un “comune denominatore”). Il Fondo, però, nonostante una storia florida, sta attraversando da anni una crisi sempre più acuta.
Tre sono i fattori che spiegano la condizione attuale del Fmi, secondo l’Economist. In primo luogo, “l’intransigenza dei creditori cinesi che hanno concesso prestiti ai Paesi poveri”, e che non vogliono vedere decurtato il loro credito dalle ristrutturazioni del debito volute dal Fondo (argomento su cui torneremo a breve). Secondo, la precaria condizione degli Stati fragili che, come sottolinea Donato Speroni nel suo editoriale sul sito dell’ASviS, non riescono a uscire dalla “spirale dell’indebitamento” alimentata dai continui prestiti. In terzo luogo, il Fondo non si è dimostrato capace di evolversi verso nuove forme di prestito sulle questioni climatiche e sanitarie.
I numeri, da questo punto di vista, parlano chiaro. In quella che viene definita dall’Economist “la più grande crisi del debito dagli anni ’80”, il Fondo è riuscito ad approvare solo 3,4 miliardi di dollari (l’8,5% del capitale raccolto per le nuove agevolazioni creditizie) per affrontare tutte le crisi, dal cambiamento climatico alla carenza di cibo.
Inoltre, il Fondo si è dimostrato negli anni incapace di attivare un autentico processo di cambiamento nei Paesi che ha aiutato (il Pakistan, per fare un esempio, ha richiesto dal 2000 sette programmi di prestito, tre dei quali non è riuscito a rimborsare). Questo cambiamento dovrebbe verificarsi tramite il finanziamento di opere pubbliche mirate, ristrutturazioni solide del debito e altri interventi di natura strutturale che il Fondo non riesce a veicolare.
È anche cambiato il focus dell’azione del Fmi: sempre secondo l’Economist, dal 2010 il Fondo monetario internazionale lontane dalla bilancia dei pagamenti o dalla stabilità economica globale, ma più orientate verso l’uguaglianza di genere o le fragilità sociali. Per queste ragioni alcuni auspicano un’evoluzione del Fondo verso un modello “Banca mondiale”. “Trasformare il Fmi nella Banca Mondiale non funzionerà”, ha commentato Kenneth Rogoff, capo economista del Fondo dal 2001 al 2003. Per 70 anni, le due istituzioni hanno diviso il loro lavoro. Il Fmi ha stabilizzato l’economia mondiale (concedendo prestiti a breve termine), mentre la World bank ha finanziato lo sviluppo globale (con prestiti a lungo termine). “Il Fmi offre liquidità, la Banca Mondiale finanzia progetti”, ha commentato Rogoff. “Il cambiamento climatico e le questioni sanitarie rappresentano ostacoli alla crescita nei Paesi più poveri. Richiedono finanziamenti a lungo termine. Dovrebbero quindi rientrare nel mandato della Banca”.
In questa situazione già precaria, si inserisce la diatriba sino-americana sulla ristrutturazione del debito dei Paesi poveri. Il Fondo concede infatti prestiti agli Stati solamente una volta che si è assicurato che l’indebitamento di un Paese sia sostenibile. Questo passaggio richiede solitamente un accordo per ristrutturare (e a volte cancellare) il debito del Paese in crisi. Il problema è che, a oggi, più di 65 Paesi nel mondo devono il loro 10% del debito estero alla Cina (e di questi, almeno 21 Paesi, tra cui Malawi e Sri Lanka, sono in default o in fase di ristrutturazione del debito). Questi Stati devono collettivamente a Pechino circa 1,3 migliaia di miliardi di dollari: cifre grosse, che la Cina non vuole certo vedersi decurtare dal Fondo monetario internazionale. Ma come ricorda Kristalina Georgieva, direttrice generale del Fmi, “senza il coinvolgimento della Cina nella ristrutturazione, i salvataggi del Fondo monetario internazionale potrebbero semplicemente finire nelle tasche cinesi”.
Brics + New development bank
Dove ci sono opposizioni nascono alternative. È notizia recente l’apertura del gruppo Brics (raggruppamento di Paesi che include Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ad altri sei membri (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). L’annuncio, arrivato in occasione del 15esimo vertice Brics (che si è tenuto dal 22 al 24 agosto a Johannesburg) è di quelli che non passano inosservati. Con questa mossa, si rafforza infatti il ruolo del gruppo Brics (che ha preso il nome di Brics+) come forza concorrente dei consessi a guida occidentale, come il G7, sullo scenario economico mondiale. Ruolo rinforzato dalla fondazione nel 2014 della New development bank, o Ndb (istituzione finanziaria nata dagli accordi interstatali raggiunti durante il sesto summit dei Paesi membri del Brics), concepita come alternativa al Fondo monetario internazionale.
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