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Laraba, in mostra "dietro" la maschera

Laraba, in mostra "dietro" la maschera

Fino al 12/10, 30 lavori artista algerina a Biblioteca Angelica

ROMA, 05 ottobre 2019, 19:48

di Daniela Giammusso

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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ROMA -  La carta. I volti. L'essere realmente o l'apparire. La natura. È la riflessione lunga trenta opere tra tele, sculture e installazioni dell'artista algerina Karima Laraba nella personale ''La maschera e il vortice'', curata di Giuseppe Ussani d'Escobar e fino al 12 ottobre nelle sale custodi di tanta storia e sapere come la Galleria della Biblioteca Angelica a Roma. Classe 1973, dopo aver esposto in patria e in Francia, ''Karima Laraba - racconta il curatore all'ANSA - si è innamorata dell'Italia, di Napoli e di Venezia in particolare, dove oggi vive. Non a caso, due città affacciate sull'acqua, dove la luce riflette in modo diverso e potente fino a invadere le opere di un artista. Un po' come Turner che si innamorò di Venezia o gli impressionisti francesi''. Ma non solo, perché Venezia torna nelle sue opere anche per l'uso della maschera. ''Nella sua arte - prosegue il curatore - Laraba unisce culture diverse. Lavora sull'arte occidentale attraverso la maschera tradizionale del carnevale veneziano ma anche sulla maschera africana che incarna gli spiriti della natura e che tanto influenzò l'arte occidentale del '900. Basti pensare a Picasso''. Nasce così, ad esempio, la scultura bifronte dedicata al Mistero dei fiori di Giano: da una parte l'essere androgino, con una identità fortemente simbolica e soprannaturale, che si nutre di plastica, e sul lato opposto il fiore intossicato e contaminato dal letale prodotto. A metà tra ''scultura sociale'', come amava definire Joseph Beuys, e ''scultura ecologica''. Ma c'è anche l'installazione con il grande manichino in maschera dove una corda avvolta in un rocchetto, forse addirittura un cappio al collo, racconta l'Ossessione della bellezza. ''La maschera è un magico invito allo sdoppiamento, al riconoscersi nella forza della natura'', prosegue Giuseppe Ussani d'Escobar, di fronte invece a ''un'umanità ormai messa in ginocchio in un mondo che sembra aver perso riferimenti culturali e letterari forti, i manoscritti, il libro in se', sotto a un bombardamento di telefonini, scrittura breve, con i ragazzi che violentano la parola nell'uso della lingua. E dove non c'è più alcun riferimento al sapere umano, alla filosofia, all'arte ed è sull'ignoranza che si installano estremismi e populismi''. E allora l'attualità irrompe nella tela quasi ''segnata'', ferita, dal rosso di ''Non c'è più niente da pescare''. Al centro una barca di pescatore, vuota, abbandonata. ''Forse affonda al largo del Mediterraneo o forse è alla deriva su un fiume che non esiste più - riflette il curatore - Il mare tratteggiato di nero sembra inquinato. L'umanità ha distrutto l'ambiente dove vive. Gli uomini sono assenti o addirittura scomparsi. C'è un lontano riferimento al 'sarete pescatori di uomini'. Ma potrebbe anche essere un fiume infernale come lo Stige. È la desolazione dell'anima davanti a una speranza che non esiste più''.

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