(di Paolo Petroni)
Uno spettacolo molto bello,
elegantissimo e intenso, fisico e astratto allo stesso tempo,
questo 'Crisalidi' firmato da Ciro Gallorano, il cui progetto ha
vinto il premio Biennale College Teatro per la regia under 35,
ispirato alla vita e alle opere della fotografa Francesca
Woodman, morta suicida a 22 anni nel 1981.
Dalle sue particolari immagini dagli echi surrealisti e dal
suo mondo interiore è nato allora uno spettacolo tutto visivo,
senza parole, che pare riproporre quel teatro-immagine degli
anni '70, e che esplora un mondo femminile ferito, alla faticosa
e dolorosa ricerca di sé, di quegli inafferrabili fantasmi
interiori che condizionano e imprigionano un'esistenza, ma qui
senza soluzione. A dargli letteralmente corpo, ma anche anima,
nel suo sdoppiarsi, rispecchiarsi, cercare di liberarsi sono
Andreyna De la Soledad e nei panni di Francesca Woodman una Sara
Bonci dolce e violenta, che recita con un'intensità che
coinvolge tutta se stessa, dai capelli alle dita dei piedi.
La scena di Alberto Favretto è una scatola, quasi un libro
che si apre e si dispiega a creare la parete di una casa, ma
molto rovinata e con tutte le crepe rosseggianti come avessero
fatto filtrare drammaticamente sangue. Lo spazio è limitato a
sinistra da una scrivania e a destra da una vasca da bagno, in
quel bilanciarsi esistenziale e artistico tra il lato
intellettuale e quello interiore, psicologico. La donna vi si
muove, si agita sin dall'inizio come preda di qualcosa, in
alcuni momenti quasi danzando e andando alla scoperta,
misurandosi con un proprio doppio cercando di liberarsi della
sua insinuante, invadente presenza, che ora compare attraverso
un muro, ora la segue strisciando a terra sotto una plastica,
come in una placenta, ora è una mano che da dietro si aggiunge
alle sue. Persistente come l'ombra che rimane fissa sul muro
anche quando la donna si allontana.
Tutto in un succedersi di scene come slegate, come diversi
momenti, che puntano alla perfezione visiva con le articolate e
precise luci di Sander Loonen e suoni, musiche cupe e
martellanti, echi industriali, ossessioni all'interno di una
testa. Se si conoscono le foto di Woodman se ne riconoscono le
ricostruzioni, le sbavature e sfocature, le figure piegate o
quella testa magrittiana avvolta in una stoffa.
Il problema è che lo spettacolo deve vivere a prescindere da
questa conoscenza che lo spettatore può non avere e, quindi, il
gioco rischia di apparire formalmente una serie di gesti
estetici di grande eleganza che, lavorando su una situazione e
non su una storia, è come puntassero a una bellezza visiva un
po' fine a se stessa. Bisogna allora rimontarli, cercare di
collegarli per libere associazioni come di una seduta
psicanalitica, non cronologicamente, pur avendo una specie di
crescendo di gesti per un'impossibile liberazione. Ed ecco lo
spogliarsi di tutto per restare nuda, l'ossessivo spazzolarsi
con violenta energia i lunghi capelli, l'acqua gettata sul viso
o tutto il corpo annegato nella vasca, sino all'imprigionarsi in
una teca di vetro, a creare tensione drammatica. E alla fine
lunghissimi applausi.
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