(di Paolo Petroni)
A aprire la Biennale Teatro 2024 è
stato il gruppo anglo-tedesco Gob Squad, cui, come annunciato a
suo tempo, è stato assegnato il Leone d'argento dai curatori
Stefano Ricci e Gianni Forte, consegnato stamani ai sette membri
con una breve cerimonia a Ca' Giustinian dal presidente della
Biennale Pietrangelo Buttafuoco.
Sono esattamente trent'anni che il gruppo anglo tedesco Gob
Squad "allestisce il proprio universo creativo soprattutto in
luoghi di passaggio (strade, stazioni, metropolitane, case,
negozi, uffici, parcheggi, alberghi... ecc) per far cadere le
maschere e scoprire i meccanismi di manipolazione della vita
reale", recita tra l'altro la motivazione del Leone ai sette
guida del gruppo, che così, "improvvisando, sviluppano strategie
inaspettate si sorprendono, sfidano loro stessi sapendo reagire
agli eventi casuali all'interno di una drammaturgia, giocando
con la percezione di ciò che è familiare e trasformando la vita
quotidiana in un'epopea per offrire al pubblico - invitandolo a
andare al di là del tradizionale ruolo passivo - la possibilità
di brillare come testimone diretto e attore principale di questo
rito. Ogni spettacolo è assolutamente un unicum".
Una realtà che nello spettacolo veneziano, 'Cration (Pictures
for Dorian)', che allude al Dorian Gray di Wilde che cerca
grazie a un quadro magico di rimanere giovane e bello per
sempre, tutto questo si è solo intravisto in un gioco
ideologico, alla lunga ripetitivo e simbolico in modo
didascalico, nonostante la dichiarazione che "il teatro è
metafora". Il tema è il passare del tempo, segnato
dall'appassire nello spazio dello spettacolo di una creazione
floreale ikebana, messa sotto una fonte di forte calore e il
titolo 'Il mondo è tuo per una stagione'.
Il fatto è che molto teatro post drammatico, per citare la
storica definizione di Lehmann, sembra fatto più per chi vi
partecipa che per essere visto e qui, al Teatro delle Tese, il
teorizzato coinvolgimento del pubblico, in nome di oggi siamo
tutti attori e abbiamo in mano una piccola telecamera, non c'è
praticamente stato.
In scena tre personaggi mostrano come manipolarne
teatralmente altri sei, tre più giovani di loro, tre più
anziani, usandoli più come pupazzi che come attori, pur
invitandoli a mostrare brevemente espressioni e sentimenti,
dalla paura all'amore, dal successo a un senso della fine, al di
là della voglia dell'artista all'opera di essere sempre vitale e
amato. Artista presentato come opera d'arte dei suoi
creatori-registi, quindi ripreso e proiettato su uno schermo,
messo davanti a specchi (per andare oltre lo specchio?) e
all'interno di vere e proprie cornici di legno. Questo con lo
sciogliersi poi in un ritorno all'io reale, dei sei, attori veri
e presi dal mondo dello spettacolo veneziano, che si presentano
e dichiarano, superando quel labile confine che era stato creato
tra loro e l'impersonare qualcosa, oltre che un'età in cui si
guarda al futuro e una in cui si fanno i conti col passato,
testimoni di un rapporto col tempo e l'età su cui vengono
interrogati.
Puntando su alcune confessioni tra errori e speranze dei
personaggi che fanno finta di mettersi in gioco, si tratta di
cercar di far emergere, almeno a tratti, la loro umanità, ma
tutto per lo spettatore si esaurisce in questa performance
metateatrale, che però va avanti per due ore, quando ogni
aspetto concettuale e creativo si era esaurito in metà tempo ed
è andato via via perdendo potenziale carica e senso.
La loro dichiarata, anche alla consegna del Leone, lotta
alla solitudine: "Quel che stiamo cercando di dire è che
sappiamo che avete tutti bisogno di questa proiezione. Perché
siete tutti soli... È per questo che siamo tutti qui.
Combattiamo insieme questa solitudine", chiamando simbolicamente
tutti a partecipare, è in realtà da sempre il senso stesso del
teatro, del rapporto tra artista, opera e pubblico.
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