Se c'è un outsider nella politica britannica, quello è lui. Il suo nome è Jeremy Corbyn e per decenni è stato più noto nelle piazze dei militanti che non nei palazzi. Alla Camera dei Comuni, dove pure siede da quasi 37 anni, era l'eterno 'backbencher': uno di quelli seduti agli ultimi banchi, la retrovia dei battitori liberi, fra gli indisciplinati della sinistra laburista.
Ora però, a 70 anni compiuti, il compagno Jeremy, detto Jezza, sembra essersi abituato al centro della scena: sfidante per la seconda volta, seppure da sfavorito, nella corsa contro i conservatori per Downing Street sullo sfondo della Brexit.
Alfiere del 'no all'austerity', pacifista e socialista mai pentito, Corbyn è arrivato all'ultima chance politica della vita con gli stessi sogni, gli stessi pregi e difetti, gli stessi abiti sdruciti della gioventù.
Solo la barba si è fatta grigia, da rossa che era. E il sorriso si è come addolcito: da nonno ribelle, caro ai molti giovani millennials apparsi a frotte, nella sorpresa un po' stizzita dei media di establishment, ad acclamarlo fin dalla campagna del 2017 al grido "Jez, we can!".
Nato a Chippenham, nel Wiltshire, figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica conosciutisi sulla trincea repubblicana durante la Guerra civile spagnola, Jeremy cresce in un clima di attivismo politico destinato a segnarne tutte le scelte future. Dopo essere stato funzionario sindacale, diventa deputato nel collegio londinese di Islington a 34 anni. Le sue cause spaziano dai diritti dei lavoratori alla pace in Irlanda del Nord e in Palestina. Per Nelson Mandela, allora in cella nelle galere di un regime razzista sudafricano trattato coi guanti dai governi di Margaret Thatcher, si fa pure arrestare.
Paladino del disarmo nucleare, ostile all'interventismo militare (in Iraq, Afghanistan, Libia, ma anche nei Balcani), è altrettanto radicale nella vita privata. Vegetariano, astemio e ambientalista, si è sposato tre volte: dalla seconda moglie, Claudia Bracchitta, italiana, ha avuto tre figli e ha divorziato nel 1999, pare uno screzio sull'iscrizione di uno dei ragazzi a una scuola privata, da lui considerata off limits. La consorte attuale è cilena e gli ha portato in dote il micio El Gato.
La svolta nel suo destino arriva nel 2015, quando viene eletto a sorpresa leader dei laburisti, sull'onda del rifiuto dilagante nella base verso gli ex blairiani liberal in carriera.
L'anno dopo stravince una seconda sfida malgrado il fuoco amico di gran parte della nomenklatura interna. E la bandiera del Labour rimane così nelle sue mani, sia contro Theresa May sia contro Boris Johnson, in barba agli alti e bassi della Brexit, alle critiche alla sua leadership incerta, alle polemiche sull'atteggiamento che gli viene imputato rispetto a certi rigurgiti di antisionismo (ma anche di antisemitismo di sinistra) nel partito. Il meglio di sé lo dà comunque in campagna elettorale, iniziata in questi mesi come nel 2017 nei panni di vittima sacrificale - dei sondaggi e di gran parte dei media - ma affrontata senza risparmio: col solito spirito anticonformista, riempiendo le piazze e sempre in rimonta sulle previsioni. Il suo marchio è quello di un programma di sinistra-sinistra (quest'anno più ancora di due anni fa, simboleggiato da un libretto rosso di 90 pagine) che si affianca e in qualche modo prova a velare la promessa di un secondo referendum sulla Brexit: tema che divide la base del Labour. Un programma fatto d'impegni sul rilancio del welfare per "i molti" e dell'azione di stimolo dello Stato nell'economia, con piani d'investimenti pubblici imponenti negli anni, concepiti nelle intenzioni per ridurre le enormi diseguaglianze del Paese; con alcune nazionalizzazioni di ritorno; e l'obiettivo francamente dichiarato di aumentare le tasse alla grandi multinazionali, ma pure al 5% (almeno) più benestante dei contribuenti britannici.
Il punto debole resta il rapporto con la platea più vasta degli elettori, la maggioranza silenziosa. Ma fra i disillusi e gli sconfitti della globalizzazione Corbyn ha fatto breccia. E così fra gli under 30. Mentre se c'è chi guarda al suo manifesto neosocialista come a un incubo, non manca chi - vada come vada - è pronto a dirgli grazie: per aver offerto un altro paradigma, e almeno ispirato un sogno di "cambiamento" a occhi aperti.
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