Ora come ora la tragedia ucraina appare comunque lontana, aliena a queste terre. Il responsabile del comando est a trazione USA, il generale Cristopher Samulski, è convinto che al momento le tensioni siano tutte di «natura interna». «La guerra in Ucraina resta un fattore di destabilizzazione per la regione ma non c’è nessun contagio», assicura. Il contingente americano si trova nella base di Bondsteel, dove si respira un’aria molto diversa da Film City. Gli elicotteri Black Hawk decollano e atterrano di continuo e la sensazione è che qui si trovino i “muscoli” in grado d’intervenire in caso di disordini seri. L’altro comando, che controlla l’occidente del Paese, è invece a guida italiana. Certo, sebbene rinforzato il contingente NATO è un pallido riflesso di ciò che era agli inizi degli anni Duemila, quando poteva contare su oltre 50mila soldati. Il che è senz’altro un fattore positivo.
I negoziati, in tutto questo, proseguono. Lentamente, tra conferme e smentite. Le ultime voci riferiscono che è stato redatto un nuovo piano di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo grazie all’impegno di Francia e Germania. La roadmap prevede che Belgrado accetti, senza riconoscere formalmente, l'indipendenza del Kosovo, ottenendo in cambio benefici finanziari e un chiaro percorso d’ingresso nell’Ue; tra 10 anni, poi, quando probabilmente il prossimo gruppo di Paesi candidati entrerà a far parte dell’Unione Europea, un accordo formale sul riconoscimento reciproco sarà raggiunto e attivato prima dell'ascesa dell'intera regione. Ciò comporterebbe il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo da parte dei cinque Paesi dell'Ue che non l'hanno ancora fatto (Grecia, Slovacchia, Spagna, Romania e Cipro), mentre la Serbia otterrebbe «enormi aiuti finanziari» e sarebbe riconosciuta come «potenza leader nella regione».
L’accettazione dell’indipendenza del Kosovo (senza il pieno riconoscimento) comporterebbe che Belgrado smetta di ostacolare l'adesione di Pristina alle organizzazioni internazionali. Ciò consentirebbe al Kosovo di aderire al Consiglio d’Europa, all’Interpol, all'UNESCO, poi alla NATO e all'Ue e infine alle Nazioni Unite. L'adesione all'ONU sarebbe la più problematica perché non dipende solo da Belgrado ma anche dalla posizione della Russia, visto che Mosca continua a dichiararsi pronta a porre il veto a qualsiasi iniziativa di questo tipo. Da parte sua, Pristina accetterebbe di consentire la formazione dell'Associazione dei Comuni Serbi alla fine del periodo di 10 anni, subito prima del riconoscimento reciproco. L'associazione vedrebbe la creazione di una struttura serba in Kosovo, sostenuta da Belgrado, cosa che Pristina afferma essere contraria alla sua costituzione e che ha fallito altrove, ad esempio in Bosnia-Erzegovina.
Al momento, però, restano solo voci. A Bruxelles tengono la bocca chiusa e altri bene informati dicono che i documenti in circolazione siano più di uno. Resta il fatto che il presidente Vucic non perde occasione per ribadire che, finché c’è lui al potere, il Kosovo non sarà mai riconosciuto e, margine dell’assemblea generale dell’ONU, ha firmato un accordo politico con il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov. Dato il contesto, l’Ue si è detta «estremamente preoccupata» per la mossa e ha ricordato che un Paese candidato all’ingresso «deve allineare la sua politica estera» con quella del club.
Il cantiere Kosovo, dunque, continua. Se non altro la guerra in Ucraina ha fatto capire ai leader europei che lasciare i Balcani a loro stessi è rischioso. E serve accelerare il loro ingresso nell’Ue, a costo di usare l’immaginazione.
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