ANTONIO VARSORI, 'RADIOSO MAGGIO' (IL MULINO, 216 pp., 15 euro)
Del 24 maggio 1915 tutti ricordiamo i "primi fanti" che in una famosa canzone passavano lungo il Piave mormorante "per raggiunger la frontiera e far contro il nemico una barriera". Eppure, quel nemico contro il quale si marciava - l'Impero austroungarico - era stato fino a pochissimo tempo prima un alleato di Roma, stretta con Vienna e Berlino nella Triplice Alleanza. Il "voltafaccia" dell'Italia, preceduto da una lunga fase di doppiezza nei rapporti con le altre potenze europee, fu suggellato dalla firma segreta del patto di Londra, con cui il nostro Paese si impegnava a combattere a fianco dell'Intesa in cambio di vantaggi territoriali.
Da quel momento all'entrata in guerra ufficiale passano quattro settimane: ce le racconta quasi giorno per giorno lo storico delle relazioni internazionali Antonio Varsori in un saggio dettagliato e ben documentato, pubblicato in concomitanza con l'anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia, 'Radioso maggio'. L'espressione è stata resa celebre da un discorso tenuto nel 1932 ad Ancona da Mussolini, nel quale l'inizio del conflitto è usato come spartiacque fra la storia d'Italia fatta "di manovre diplomatiche, di intrighi di governo, di passioni di minoranze" e quella fatta dal popolo che irrompeva sulla scena politica (in un certo senso anticipando, almeno secondo la retorica mussoliniana, la presa di potere da parte del fascismo).
In realtà, spiega Varsori, la scelta di entrare in guerra fu tutt'altro che condivisa. A gestire la fase preparatoria furono sostanzialmente in due, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, con l'assenso del re Vittorio Emanuele III. Le trattative con l'Intesa e quelle con la Triplice Alleanza vennero condotte contemporaneamente e nella massima segretezza, lasciando del tutto all'oscuro il resto del governo, il Parlamento, persino i diplomatici italiani nelle capitali degli Imperi centrali ("Nella mia lunga carriera non ho mai visto condurre la nostra politica estera in modo così bestiale e così poco leale", scrisse l'ambasciatore a Vienna Giuseppe Avarna al collega a Berlino Riccardo Bollati).
Nel giro di pochi mesi, una minoranza favorevole all'entrata in guerra ebbe ragione della maggioranza neutralista, silenziosa e poco organizzata. Gli interventisti, invece, avevano dalla loro parte gran parte della stampa - primo fra tutti il Corriere della Sera di Luigi Albertini - ma anche un intellettuale capace di galvanizzare le folle come Gabriele D'Annunzio: al suo ruolo di formidabile e forse inconsapevole ingranaggio della macchina della propaganda pro-bellica Varsori dedica più di una pagina.
Lo stesso Mussolini, che da socialista e direttore dell'Avanti! era stato fra i più accesi antimilitaristi, cambiò radicalmente opinione e si schierò a favore della guerra, finendo per essere espulso dal Psi. Oltre che vedere nel conflitto la possibilità di spazzar via la sinistra giolittiana, la classe dirigente liberale era ossessionata dall'idea che l'Italia fosse riconosciuta nel novero delle grandi potenze cancellando, se possibile, il ricordo di come si era giunti all'unificazione durante il Risorgimento: ossia, sostanzialmente, con un lungo processo diplomatico costellato da prove militari tutt'altro che brillanti. Si cercava insomma un riscatto che, se mai ci fu, non fu mai pieno, perché costò tre anni e mezzo di guerra, oltre un milione di vite umane e fu ottenuto a prezzo di una condotta ambigua di cui l'Italia avrebbe a lungo conservato il marchio.
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