ANDREW ZOLLI con ANN MARIE HEALY, ''Resilienza. La scienza di adattarsi ai cambiamenti'' (Rizzoli, pp. 373, 19 euro). Per molti è un termine pieno di fascino, per altri è solo una moda. Fatto sta che di ''resilienza'' si parla ormai da diversi anni come un concetto che, mutuato dalla tecnologia dei materiali e relativo alla capacità di resistere agli urti, è entrato a far parte di diversi ambiti, come ecologia, scienze politiche, psicologia. E non è un caso che in un momento di crisi economica e incertezza dei mercati sia proprio il mondo degli affari a guardare a essa con interesse sempre crescente. Sulla resilienza dei sistemi e delle persone si focalizza Andrew Zolli che, con Ann Marie Healy, è autore del saggio ''Resilienza. La scienza di adattarsi ai cambiamenti'' (Rizzoli). Comunque la si pensi, la questione implica di certo più di una riflessione e molte domande. Perché una persona o un sistema reagiscono a uno shock meglio di altri? Perché c'è chi riparte da una situazione critica ''ridisegnando'' un adattamento più in linea alle nuove esigenze e chi invece soccombe? Dipende, secondo gli autori, da quanto si è ''resilienti''. Molti gli esempi esaminati nel volume per spiegare quanto il risultato negativo o positivo dipenda dall'adottare o meno questa strategia: dalla crisi delle banche statunitensi nel 2008 alla Missione 4636 nata in modo auto-organizzato per rispondere all'emergenza umanitaria ad Haiti nel 2010, fino alla possibilità della mente umana di fronteggiare lutti o abusi. Reagire in modo sano e positivo si può: servono adattabilità, agilità, approccio olistico, cooperazione. Ma non si illuda chi pensa di poter trovare in questa teoria una soluzione facile e indolore ai propri problemi: la resilienza non potrà risolverli ''a costo zero''.
Essere resilienti infatti comporta sforzi continui che non sempre verranno premiati e che, anche nel migliore degli esiti, saranno comunque provvisori. Né tantomeno una soluzione resiliente è adatta per tutte le circostanze: al contrario, è sempre radicata in uno specifico contesto. Gli autori infatti si riferiscono a ciò che, negli anni '70, con una notevole capacità visionaria, Alvin Toffler e Henry Mintzberg avevano indicato con il termine ''adhocrazia'', ossia il sistema organizzativo più adatto a far fiorire dinamiche resilienti, in cui reti informali di pubblico e privato, piattaforme tecnologiche, singoli individui e innovatori sociali lavorano a uno stesso obiettivo in modo spontaneo e provvisorio. Se è vero che tutto è sempre in divenire e soggetto a evoluzione e che la ''resilienza è caotica, imperfetta e inefficiente'', allora forse conviene analizzare le fragilità, predisporre per ognuna di esse risposte differenti e monitorare i feedback, ma sempre tenendo presente che l'imprevedibile è dietro l'angolo e che potremmo dover sconvolgere la nostra strategia. Ma allora, siamo condannati all'esasperazione e al continuo struggimento? Forse, ma almeno nel nostro bagaglio di incertezze e vulnerabilità possiamo appoggiarci a un unico punto fermo: ''La resilienza va sempre ravvivata e cercata daccapo'', affermano gli autori. Non sarà molto, ma almeno è qualcosa da cui partire.
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