(di Francesca Chiri)
LA LINGUA DELLA NEOPOLITICA, MICHELE
A. CORTELAZZO (Treccani; 19,00 euro, 248 pagine)
Come parlano i leader politici? Il politichese è un ricordo
del passato, di quando la classe dirigente si trincerava dietro
un linguaggio forbito e impenetrabile che costruiva un lessico
comprensibile solo agli addetti ai lavori, o si è semplicemente
adattato ai tempi che cambiano? Per il linguista Michele A.
Cortelazzo, accademico ordinario della Crusca, quello più in
voga tra i nuovi politici sarebbe una sorta di rispecchiamento
nei confronti dell'elettore che darebbe vita ad una scelta
linguistica che lui chiama "gentese", vale a dire la lingua
della "gente". E che, forse proprio per questo, si è spesso
radicalizzata attraverso i social, facendo emergere ancora un
altro gergo che l'accademico ribattezza come "socialese".
Nel libro 'La lingua della neopolitica. Come parlano i
leader', pubblicato dalla Treccani, l'autore osserva e mette in
fila tutta una serie di nuovi termini che da un lato evidenziano
una sorta di resistenza all'abbandono del politichese,
dall'altro mostrano quanto il linguaggio si sia fatto, proprio
per questa permeabilità con l'eloquio comune, più accessibile.
Verrebbe forse da dire anche più democratico.
Sia come sia, superati gli anni '90, vediamo quali sono ora i
neo, o semi-neo, logismi che attraversano la politica. Nella
lunga lista di Cortelazzo troviamo il termine
"esternalizzazione", la perifrasi "governo del cambiamento",
l'uso un po' inflazionato del vocabolo "interlocuzione" e quello
ancora più modaiolo di "resilienza". Nulla in confronto agli
ossimori della prima Repubblica che produsse vere e proprie
perle del frasario politico come le "convergenze parallele" di
Moro, gli "equilibri più avanzati" di De Martino, il
"compromesso storico" di Berlinguer, i "casti connubi" di
Andreotti diventati poi il "radicalismo dolce" di Prodi.
Nella transizione Cortelazzo ricorda Berlusconi "grande
innovatore del linguaggio politico italiano", il cui ultimo
guizzo linguistico è stato "l'operazione scoiattolo", nome in
codice per la cattura, uno per uno, dei grandi elettori che gli
mancano per il "grande salto verso il Colle" nel gennaio 2022.
Ora c'è Giorgia Meloni che ha invece rispolverato un lessico
molto valoriale ("coraggio", "fierezza", "orgoglio") e
rilanciato parole come "bonifica" e l'anglismo più famoso,
"underdog". Il Partito democratico, scrive il linguista, dopo la
'verve' di Luigi Bersani, ha vissuto un deficit di specificità
lessicale con Enrico Letta e con Elly Schlein troviamo però la
"vittimizzazione secondaria". Dal Movimento 5 stelle resta
inarrivabile il "vaffa" di Beppe Grillo, a cui è poi subentrata
la "pacchia" di Matteo Salvini e della sua Lega, affetta,
afferma Cortelazzo, da "bulimia comunicativa", con parole come
"europirla", "sbruffoncella", "ruspa", "giornaloni",
"intellettualoni", "professoroni", "rosiconi" o "zecche".
Termini in alcuni casi ereditati da Matteo Renzi, mentre si deve
a Carlo Calenda "bipopulismo".
Mentre imperversano i "campi", con quello largo come il più
famoso. Con un rischio, sostiene l'autore, "che al diminuire dei
partiti faccia riscontro il nomadismo politico, un
'menevadismo', lo scissionismo di sinistra che ricorda altri
-ismi del passato come 'doppiopesismo', 'doppiogiochismo',
'cerchiobottismo'. per finire con il 'celodurismo', di
'Umbertobossiana' memoria.
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