Il ruolo del giornalista nell'informazione giudiziaria, la necessità che la magistratura comunichi in maniera trasparente, e il linguaggio con cui i mezzi di informazione raccontano episodi di violenza sulle donne sono alcuni dei temi affrontati nel corso degli ultimi due seminari che si tengono a Bari nell'ambito della nona edizione del Festival Giornalisti del Mediterraneo. Nel primo incontro, 'Il dovere della comunicazione giudiziaria', è intervenuto, tra gli altri, l'avvocato Michele Mongelli. Per il legale, "il dovere della comunicazione si pone come punto di incontro tra il diritto sacrosanto e costituzionalmente garantito della magistratura ad avere una sua indipendenza di azione, ma anche nel diritto della società di poter controllare l’operato della magistratura e, perché no, di poter controllare ed eventualmente pungolare il Parlamento attraverso le forme costituzionalmente previste per promuovere leggi che favoriscano una società migliore". Per esempio, ha rilevato Mongelli, "l’esternazione del procuratore della Repubblica di Catania riguardo alle Ong, ha suscitato clamore nella società, inducendola a riflettere su un’altra sfaccettatura della migrazione". Infine, ha concluso l'avvocato, "manca una legge che disciplini in maniera precisa come questa comunicazione deve essere fornita, quale deve essere l’organo deputato a farlo".
Sul "linguaggio fuorviante e superficiale" con cui si affronta spesso la violenza di genere si è invece concentrato il seminario 'La violenza contro le donne. Fenomeno culturale e sociale', al quale è intervenuto, tra gli altri, il giornalista Michele Partipilo, dell'Ordine nazionale dei giornalisti. Nel corso dell'incontro si è evidenziato che "parlare di 'raptus' come fosse un episodio esploso improvvisamente, o utilizzare l’inconsapevole ossimoro 'delitto passionale' come se i sentimenti avessero una qualche connessione col crimine, la violenza e la morte, è assolutamente discutibile". Per Partipilo, "il linguaggio utilizzato dai media nell’affrontare i casi di violenza, può risultare superficiale, talvolta poco rispettoso dei diritti della persona, ma può anche indurre a simulare un certo tipo di atteggiamenti". "Attraverso il rispetto delle norme deontologiche nella riproposizione mediatica di questa argomento - ha concluso il cronista - si può quantomeno fornire una rappresentazione del fatto che sia più corretta e che non contribuisca ad accentuare ulteriormente il fenomeno".