Dopo quattro processi è stato
assolto, dalla IV sezione della Corte d'Assise d'Appello di
Napoli, il professor Paolo Russo, finito sotto processo con
l'accusa di avere abbandonato la madre che successivamente è
morta. Russo era accusato, in particolare, di avere abbandonato
la madre - di cui era tutore legale e che aveva accudito per
molti anni - per averla temporaneamente ricoverata in una casa
di cura per anziani che, secondo l'ipotesi accusatoria, non era
in possesso delle autorizzazioni necessarie per poter accogliere
soggetti non autonomi, com'era la donna.
In primo e secondo grado l'imputato era stato condannato ma
poi la Corte di Cassazione - accogliendo i motivi di ricorso
della difesa e respingendo gli argomenti delle sentenze di
condanna - aveva annullato la sentenza, rinviando davanti alla
Corte d'Appello napoletana per un nuovo giudizio. E ieri i
giudici di secondo grado, dopo otto anni di processo, hanno
assolto con formula piena l'imputato per non aver commesso il
fatto.
Soddisfazione è stata espressa dall'avvocato Domenico
Ciruzzi, che assiste Russo. "Sono davvero contento - ha
dichiarato il legale - in primo luogo per il professor Russo, un
uomo perbene, un uomo buono, un galantuomo che ha assistito da
solo la madre per tantissimi anni e che incredibilmente è stato
accusato, di fatto, di averla fatta morire solo perché l'avrebbe
temporaneamente ricoverata in un luogo di cura che - pur da
tutti i testimoni indicato quale attrezzato, pulito ed in cui
gli anziani erano amorevolmente accuditi - era privo di alcune
autorizzazioni previste dalla legge. Si può soltanto immaginare
lo strazio di un figlio amorevole accusato di aver in qualche
modo contribuito alla morte della propria madre". "Ma sono
felice - ha detto ancora Ciruzzi - anche per il diritto e per la
giustizia del nostro Paese perché finalmente la Corte di Appello
(e prima ancora la Corte di Cassazione) hanno espresso una
decisione e dei principi che apparivano chiarissimi già
all'esito dell'istruttoria di primo grado.
Ecco, io credo che questa vicenda sia paradigmatica di come il
pregiudizio, i bias concettuali, alcuni timori psicologici
inconsci del giudicante molto spesso influiscano in modo
determinante nei giudizi. Dico che questa vicenda è
paradigmatica perché questa volta non c'entrano le influenze
fuorvianti dei media o le ingerenze distorsive della politica ma
forse solo l'incapacità del giudice di decondizionarsi dai
pregiudizi più ancestrali che albergano in ognuno o meglio in
molti di noi. Può infatti, in generale, sussistere un'incapacità
di decondizionarsi dai pregiudizi che denota talvolta
un'insufficienza di cultura umanistica del Giudicante del tutto
offuscata da prove concorsuali di accesso inadeguate per
l'altissima - e fondamentale per la democrazia - funzione del
giudicare", ha concluso il professionista.
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